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adami
 
Stile Arte ripropone una storica intervista a Valerio Adami, nel corso della quale l’artista mette in luce chiaramente la nascita della sua poetica e del suo stile
 
di Anna Maria Di Paolo
 

valerio_adamiChe l’excursus della ricerca di Valerio Adami abbia sempre seguito una catena umanistica e artistica associativa, in cui le contrapposizioni sono necessarie per concretizzare non tanto una forma quanto un sistema di trame lineari e continuative, è così evidente da sembrare il punto nodale di connessione tra il concetto consapevolmente e lungamente blandito e la sua rappresentazione. In questa operazione intellettuale, il segno stabile del suo linguaggio è il disegno, che diventa base dell’energia progettuale. Dedurre allora che nelle opere del maestro il disegno abbia una natura prevalentemente strumentale di esecutività ingenererebbe una limitazione alla loro valenza. Il disegno, infatti, è il fondamento della rappresentazione docta del suo progetto totale, che arriva a significare dell’immagine ogni dato apparente del soggetto scelto, sia esso Odisseo o Selbstbildnis. E’ come se una linea in neretto tracciata sulla tela facesse scatenare in Valerio Adami, a mo’ della madeleine proustiana, la suggestione, l’evocazione involontaria del modo della raffigurazione. Ne consegue una composita tessitura in cui, non potendo più distinguere se sia prevalente la trama sull’ordito o viceversa, domina una visione concettuale rielaborata. Concetto e disegno confluiscono pertanto inscindibilmente nell’impianto artistico-narrativo del quadro, che suggerisce un forte e sicuro impatto comunicativo ed emotivo della concezione del mondo e della sua disincantata rappresentazione. Valerio Adami è uno dei maggiori artisti italiani viventi. Nato a Bologna nel 1935, ha studiato all’Accademia di Brera. La sua formazione s’è arricchita nei lunghi soggiorni in Inghilterra, negli Stati Uniti, in Francia, in India, a contatto di personalità come Bacon, Sutherland, Matta, Lam, Lichtenstein, Warhol. Numerose, dal 1957, le mostre personali e collettive in Italia e nel mondo. Si ricorda la sua partecipazione con una sala personale a “Documenta” di Kassel nel ‘64, alla Biennale di Venezia nel ‘68, al Museo d’Arte Moderna di Parigi nel ‘70, e, tra numerose altre, a Città del Messico, al Centre Pompidou di Parigi, a Copenaghen, a Tokyo, al Museo Reina Sofia di Madrid, al Museo d’Arte di Tel Aviv, al Museo di Belle Arti di Buenos Aires. Adami ha creato a Vaduz, nel Liechtenstein, l’Institut du Dessin-Fondation Adami, mentre nel giugno del 2001 inaugurerà a Meina, sul lago Maggiore, la Fondazione Europea del Disegno, di cui ha assunto la presidenza.



Maestro, attraverso quali mutamenti è passata – dal ’58 ad oggi – la sua pittura dalle stesure lisce e colorate?
Ha seguito un processo composito. All’epoca in cui nell’arte pareva contasse solo il concetto di astrattismo, di astrazione assoluta, quando, con altri amici pittori, si cercava di “ricostruire” un po’ la forma, la critica diceva: “Ma che fate? Volete tornare all’Ottocento?”La mia generazione ha avuto la possibilità di rimodellare il corpo ed il corpus della rappresentazione. I nostri modelli erano Wilfred Lam, Sebastian Matta, un certo Francis Bacon. Tutto il nostro lavoro, pertanto, era la ricostruzione dell’immagine del corpo e della figura e, nello stesso tempo, era molto lontano dalle simbologie di Warhol. Certo, con la Pop Art non mancavano punti di contatto continui: quando ti trovi a raccontare il quotidiano, ad esempio le stazioni delle metropolitane, la realtà simbolica è la stessa. Diversi, semmai, sono il concetto e la rappresentazione della forma.
Tuttavia spesso si tende ad ingabbiare il suo lavoro proprio nella Pop Art; lei si riconosce nel Gruppo milanese del tempo?
In qualche misura, sì. Gli anni della mia formazione sono stati però quelli londinesi. L’educazione dell’Italia fascista – ho frequentato solo le prime classi sotto il fascismo – era stata all’insegna della retorica. Nella cultura anglosassone scoprivo qualcosa che avevo ignorato, ad esempio l’esistenza di Bacon, che ho conosciuto e spesso frequentato con Bepi Romagnoni nella Capitale britannica, quando vivevo lì – nel ’58 -, e che allora era trascurato o addirittura detestato. Siamo stati noi ad esporre alcuni suoi lavori alla Galleria Scacchi Gracco di Milano per la mostra “Il nuovo racconto”: erano quegli stessi lavori che poi furono acquistati dalla Collezione Ponti di Roma. Ci deliziavamo altresì dalle poesie di Eliot e dalle opere di Owen, che suscitavano curiosità ed immensi desideri. Negli anni Sessanta mi trasferii poi a Parigi, dove ho trovato una straordinaria accoglienza e dove la mia produzione è stata riconosciuta più che in Italia. L’Italia mi ha sempre accusato di internazionalismo, mentre in Francia ero un artista di antica tradizione italiana…



Possiamo considerare una sua cifra stilistica l’immagine composita di interni e situazioni quotidiane col disegno in neretto, sottolineato come nei fumetti?
Il disegno è essenziale nei miei quadri. La critica italiana mi ha sempre collocato tra la cultura inglese e quella statunitense. Una collocazione che però a me va stretta. Mi sono sentito invece attratto da un’ossessione, che era l’ossessione del disegno e della necessità profonda di andare alla rappresentazione e alla testimonianza dell’iconografia della modernità. Non posso negare che nel lavoro della mia generazione ci siano state per breve tempo illusioni legate a certo linguaggio di comunicazione diretta, quello delle affiche e dei want you (penso a “Il nemico ti ascolta”). Evidentemente è stata una grandissima lezione. Anche la tecnica del fumetto mi ha molto toccato. Quando il personaggio di una strip parla, c’è una frecciolina che lega le parole. Se sta pensando, ci sono dei pallini, dei cerchietti. Quale più strabiliante invenzione linguistica e immediata capacità di comunicare c’è in questo, e come escluderlo da una nuova forma rappresentativa o dalla figurazione? Allo stesso tempo, non si pone nella tradizione nostra parlare di fumetto, ma semmai di codici miniati. Se lei riprende e guarda i codici miniati del Medio Evo, troverà la forma chiusa del disegno a tratto di contorno, ed è allora lì che bisognerebbe andare a scavare. Evidentemente la critica delle generazioni future lo farà, perché il legame storico,il legame della memoria non può che essere quello, con il medesimo procedere. Fino al codice medievale, infatti, l’espressione non esisteva.
Quanto influisce l’ironia sulla scelta del soggetto e sulla sua realizzazione?
Quando le forme nascono dai ricordi come se fossero i loro “c’era una volta”, e la pressione della mano sul pennello è anche un fatto della memoria, il distanziamento è conseguente; pertanto il “che cosa dipingere” precede il “come dipingere”, informato dall’automatismo spontaneo dell’ironia che si arricchisce nel gusto della narrazione. Nel quadro “A Tagore” ho cercato di cogliere qualcosa che va al di là della fondamentale nostalgia dell’anima, qualcosa che mi è parso lo affrancasse dall’oppressiva atmosfera di una corte reale, amante del lusso, dedita ai piaceri, colta, di una cultura raffinata e bizzarra. In “Ulisse”, col rimando a Joyce, introduco “Flexing muscles”, in cui si vedono due auto lontane nel paesaggio e Mister Muscolo nel ruolo dell’eroe omerico.
I suoi colori paiono diventati più caldi nell’attuale figurazione. Perché tale cambiamento cromatico?
Certamente, nel tempo, anche i colori hanno assunto un tono meno aggressivo, più riflessivo e pacato, strettamente legato al diverso tipo di ricerca. Se, ad esempio, guardo allo stato d’animo della malinconia, in “Pirosmani-La Mélancholie” ricorro a colori caldi che esprimano tale sensazione nel corpo neoclassico che esce dal buio, con la luce della luna che illumina un trofeo di caccia e Pirosmani afflitto.
Lei che ha realizzato varie opere pubbliche nel mondo, che funzione attribuisce all’artista e all’arte?
Potrei rispondere facendo riferimento alla ricerca che da anni vado conducendo nell’ambito di ritratti e volti letterari. Si osservi il quadro “Selbstbildnis”: il ruolo dell’artista è di rappresentare il tragico. Ad esempio, al posto dell’autoritratto ho dipinto uno spazio giallo, un corpo che si nasconde. La testa della Morte suona il violino di Boecklin. Il gesto della mano è nel vuoto. Ecco, è lo stile che ci fa riconoscere un modo di vivere. E l’artista ne è fortemente consapevole, e si cela sotto queste sembianze che sente proprie; dunque, con un’identità che non si attarda, come nella cultura occidentale, soltanto sull’idea della vita, ma contempla anche quella della morte. Il mio soggiorno in India mi ha ricordato tale legame, che ho ora presente nella sua valenza più pressante e vera, della morte come continuazione dell’esistere.
E’ sull’ampliamento del concetto del disegno che è stata creata la Fondazione Europea del Disegno di Meina?
Il disegno è un’occupazione letteraria, la lettura è compito degli occhi. Un disegno deve dare tutte le informazioni su se stesso. Vede, noi italiani con il termine “disegno” – a differenza dei francesi, che fanno distinzione tra “dessein” e “dessin” – intendiamo l’intero progetto come istanza morale e disciplina della ricerca nell’arte, nella musica, nella filosofia, nella letteratura. La Fondazione nasce così per suscitare un dialogo pluridisciplinare, una riflessione tecnica e pratica culturalmente creativa nella salvaguardia dei valori che, in tradizioni diverse, hanno trovato espressione nel disegno. Pertanto, anche le mostre non saranno soltanto occasioni espositive, ma corpo stesso di un dibattito sul tema sollecitato da corsi e seminari.
  (dicembre 2000, Stile arte)
 
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