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Venezia per sempre, "quanto durasse il mondo"


di Lionello Puppi

Del capitaniato di Brescia Giovanni Matteo Bembo avrebbe fatto di buon grado a meno, visto che, veramente, in quella città era giunto “malissimo volentieri”: correva l’anno di grazia 1560 e settant’anni ormai gravavano sulle sue spalle, cinquanta dei quali erano stati spesi al servizio della Repubblica serenissima, occupando le più svariate magistrature, sino alle più prestigiose, ed onerose.
Da poco aveva lasciato il capitaniato di Candia che – riteneva – avrebbe dovuto concludere il suo lungo “cursus honorum” e, a ricordarne le tappe, aveva fatto murare sulla facciata del palazzo avito nel campiello di Santa Maria Nova a Venezia, tra gli eleganti ricami ogivali delle finestre al piano nobile, un’edicola incastonante la figura di un vecchio ignudo e barbuto a sostenere un disco solare; ai suoi piedi, poggiata su un tricipitium (un’allegoria della Prudenza associata al Tempo?), la lapide con i nomi delle città di cui il Bembo era stato rettore e il monogramma di Paolo Giovio che, con il suo Ragionamento delle imprese, una simile commemorazione aveva ispirato: “dum volvitur iste […] testes erunt”, cioè, dunque, per sempre. Ma meglio, lo si legge ormai, quel monito, nel grafico ch’ebbe a trarne e pubblicarne il Cicogna nel Tomo III delle sue Inscrizioni veneziane (1830) che nella pietra ov’è impresso e modellato, quasi obliterato qual appare a ridosso del telone di un restauro interminabile, il quale attesta la condizione peritura di Venezia: che Giovanni Matteo paventava, e sognava di poter scongiurare.
Certo. Della correttezza limpida delle pubbliche funzioni esercitate era orgoglioso e, affinché fosse d’esempio, ne menava il vanto che unanimemente, del resto, gli era riconosciuto sino alla glorificazione che Girolamo Ruscelli gli aveva decretato narrando, nelle Imprese illustri che aveva mandato alle stampe nel 1566, come il Bembo – quand’era stato, nel 1538, provveditore a Cattaro -, con le armi dell’intelligenza e della sagacia avesse dissuaso il temibile corsaro ottomano Barbarossa dall’impadronirsi della città.
Umanista coltivatissimo e raffinato, era – in effetti – cresciuto alla scuola dello zio celeberrimo, il cardinal Pietro, il cui amore e le cui cure per il nipote sono attestate dalla copiosa corrispondenza che con lui intrattenne (a futura memoria, Francesco Sansovino la pubblicherà nel 1564) e, soprattutto, dalla preoccupazione che ebbe, di dargli in sposa la nipote Marcella Marcello, ch’era poetessa apprezzata e aveva familiarità con le lettere greche ma seppe anche mettere al mondo e crescere ben otto figlioli maschi e una fanciulla, Giulia, cui toccherà singolar destino. Che, ancora, vorrà illuminare quel Francesco Sansovino: il quale di Giovanni Matteo fu incondizionato estimatore e, non solo gli dedicherà alcune delle sue fatiche editoriali più significative (la volgarizzazione delle Vite di Plutarco; la Historia universale di Leonardo Bruni), ma aveva in animo, già nel 1560, di scrivere una memoria biografica “cominciando dalla sua gioventù e sino all’età presente”: che, purtroppo, non portò a termine.
E spiace perché, forse, avremmo potuto saper di più intorno alle competenze che gli eran riconosciute – né si mancava di attingervi da chi di dovere a piene mani ma, per dir così, fuori di ufficialità – in materia di cartografia (fu prodigo di informazioni a Sebastian Münster, che riconobbe il debito, per la sua Cosmographia universalis) e di scienza dell’ambiente e del territorio, con approcci anticipatori della moderna ecologia.
Assunto “malissimo volentieri” il capitaniato di Brescia, non era uomo, Giovanni Matteo Bembo, da starsene con le mani in mano e da oziare nell’attesa impaziente dello scadere del maldigerito mandato: se quella era la sorte sua, decide di far “(come si dice) di necessità virtù” e di assecondare “una certa [sua] naturale inclinatione, che h[a] sempre avuta d’abbellire et accomodare alcuni luoghi dove e quando ne h[a] veduto il bisogno”; ed eccolo a meditar d’ingrandire la piazza “ch’è davanti al palazzo della [sua] stanza” per renderla, non solo di maggior “ornamento e vaghezza”, ma atta ad ospitar lo spettacolo del torneo.
E neppur attende l’assenso della “Serenissima Signoria” per procedere, e – dunque – “fa rovinar certe casucce di preti antiche e mal ordinate le quali, congiunte con la Chiesa catedrale, stavano per traverso di questa ed un’altra piazza et erano di molta incommodità et impedimento a tutte due, oltra che occupavano et ascondevano quasi una porta di essa Chiesa et rendevano bruttissima vista et malinconica: sì come, levate hor via, hanno dato largo et spatioso campo et allegro ad una sola et grande et bella piazza. Da un capo della quale h[a] fatto ancor nascere una nuova strada che, dall’una parte risponde al Vescovado et va drittamente a riferire alla porta che riguarda verso Verona, et dall’altra risponde sul mercato che si chiama della Biava. La quale strada, insieme con detta piazza, è riuscita commodissima et di molto beneficio et ornamento a questa città et in particolare a Monsignore il Vescovo, che hora può con molto facil via passar nel Domo”.
Proprio davanti ad esso, a Giovanni Matteo capita di ragionare, un bel giorno, con chissà quale personalità del posto, della cattiva qualità dell’“aere” di Brescia: né, invero, “era da maravigliarsene per non esser questo come l’aere di Venezia, temperato et sano”, sebbene di condizione si tratti felice ma precaria perché “quello ancora sarìa per diventare in breve di mala qualità”.
“Non vi si sta provedendo”: e Giovanni Matteo Bembo si sfoga. E’ il primo giugno del 1560, e si rivolge a Girolamo Faletti, ambasciatore presso la Serenissima del Duca di Ferrara: la lettera – che non mi risulta esser mai stata discussa dagli storici di Venezia – si conserva in copia settecentesca nelle “ricche minere” della Biblioteca Correr e ben merita d’esser riferita e commentata nei punti salienti, per qualche riflessione amara sulle miserie, la vacuità, il delirio degli interminabili dibattiti attuali sul destino, in realtà ormai irrimediabilmente e catastroficamente consumato, della città.
Il Faletti, dunque; e non per caso ché, già per l’innanzi, era stato interlocutore solidale del Bembo, “quando, in casa del signor Ruscelli”, a “così lunghi ragionamenti” in materia aveva partecipato “come intendentissimo d’ogni cosa, et principalmente di questa”, non solo, ma anche come chi “è tanto dei nostri, quanto ciascun veneziano stesso, per habitation lunga, per beni stabili et per affezzion d’animo” e, in quanto tale, un altro “parere” di Giovanni Matteo aveva condiviso e appoggiato sino a farsi parte attiva nella ricerca delle risorse finanziarie necessarie a realizzarlo, e nel persuadere – anzitutto – alcune tra le “menti di codesti nostri nobili” ad assecondarlo. Stupefacente “parere”, invero, di cui finora, a mia scienza, nulla si sapeva (e sarà, pertanto, argomento da indagare, approfondire, capire): “cioè di fare un ponte da San Giovanni et Polo a Murano” che, quando “il mondo lo vedesse”, non potrebbe che “lauda[rlo] per la più rara cosa d’Italia” e, tuttavia, non incoerente con la realtà della Laguna quale compiuto sistema ambientale e funzionale che, per l’appunto, postula la necessità, ch’è uno dei nodi della lettera, di salvaguardarne la buona qualità dell’“aere”. A tal proposito, il Bembo approva e apprezza il ben noto progetto del Sabbatino – che espressamente cita -, volto a evitare che “l’acque dolci non entrino nelle salse”, ma ne auspica un’applicazione più radicale, alzando ulteriormente lo sfogo a mare dei corsi d’acqua dell’Entroterra previa opportuna regolazione a monte del loro reciproco rapporto e prosciugandone e bonificandone le sacche paludose grazie ad un’articolazione scorrevole di “canalette” utilizzabili anche per il deflusso delle “immonditie”.
Non è il caso di seguire, in questa sede, passo per passo e nei dettagli tecnici, il “ragionamento” del Bembo che prefigura la Laguna, isolata e difesa dall’orizzonte di una grande fossa arginata, come una macchina idraulica produttiva (agricoltura; pesca), dinamica (il collegamento pedonale tra i due maggiori nuclei urbani attraverso il ponte agganciante Murano a Venezia; l’agilità della navigazione per i canali profondi e puliti), ma disponibile all’ornamento (“horti et giardini”, “collinette” create utilizzando i detriti degli scavi) che, in quella stessa congiuntura, invocava Alvise Cornaro, immaginando un isoletta e un teatro nel bacino marciano.


Preme, piuttosto, insistere sulle conclusioni, profetiche, che quel “ragionamento” suggellano: ed è quando Giovanni Matteo del paesaggio lagunare indica l’episodio centrale – Venezia – alla cui sopravvivenza felice, e contro i rischi dello spopolamento e del decadimento fisico, che sono correlati, è finalizzata l’impresa ad ampio respiro, di igiene e purificazione dell’“aere”, suggerita. E dimentica, il Nostro, preso dalla pura e incomparabile bellezza della realtà urbana su cui stringe lo sguardo, gli orpelli retorici del mito che l’autocoscienza orgogliosa della città s’era costruito; par ignorare, financo, ch’è realtà che impalca e rappresenta uno Stato sovrano portatore di propri interessi particolari e non innocenti entro le conflittualità della politica internazionale.
“Non è città questa da farne così poca stima et da lasciar perdere: anzi, dovrebbe l’Italia, spogliandosi d’ogni invidioso affetto, per commune interesse et generale, provvedere ch’ella non solo non si perdesse, ma fusse nel suo buon essere conservata et mantenuta lungamente quanto durasse il mondo”. “Per qual cagione – infatti – aver fabricato et continuar tuttavia fabricando tante onorate chiese, tanti superbi palazzi et tanti altri nobilissimi edificii privati et publici con tanta fatica et con tanta spesa in tanti et tanti anni per abbandonargli poi et lasciarli dishabitati andare in rovina?”. “Certo, potendosi così facilmente provedere […] che una così bella et importante città […] non si avesse a perdere così miseramente, non si doveria mancare”.
Ma, ecco. “Molti di coloro i quali potrebbero portar rimedio, non par che sin qui si sappian risolvere a sì bella impresa, parendo loro, forse, se non impossibile, almeno difficile…”.