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Nicola Verlato – Le magnifiche illusioni della pittura italiana, lontano dall’Italia



intervista di Jacqueline Ceresoli

Nicola Verlato, nato nel 1965 a Verona, vive e lavora a New York. Stile lo ha incontrato nel suo studio di Brooklyn.

preparingthemealVerlato, quando ha iniziato a dipingere?
Ho iniziato quando avevo sette anni e ho venduto i primi quadri a nove. Dopo questi primi passi, per me entusiasmanti, non ho potuto fare altro che proseguire nella pratica del disegno e della pittura. Ed eccomi qui, ancora sulle tracce di un modo di esprimere al meglio la mia tensione figurativa, la mia creatività, con l’obiettivo di trovare un ambiente adatto alle mie aspirazioni. Questa inesauribile ricerca, il mio spirito avventuroso e la curiosità di misurarmi sempre con il nuovo mi hanno portato a New York, e non mi pento della scelta fatta.

 

 

Lei si definisce un autodidatta fedele al disegno, alla figura, stregato dal valore plastico della pittura.
La bellezza delle forme e il senso dell’armonia compositiva sono elementi dell’eccellenza italica, di derivazione rinascimentale. Questi valori, oggi, sembrano non essere apprezzati in Italia, dove invece le porte sono aperte a molti giovani artisti stranieri. Gli italiani devono così espatriare per trovare conferme professionali. Ed è un vero dramma: perché la cultura del nostro Paese, disconoscendo l’importanza della figurazione e il suo ruolo progettuale e cognitivo, in fondo disconosce se stessa.

E’ anche per questo che ha scelto di andarsene…
Sì, l’Italia mi ha deluso, non investe nell’arte contemporanea. In Italia mancano contesti e canali stimolanti entro cui misurarsi, perché la nostra figurazione non ha sbocchi sul mercato internazionale. Nella Grande Mela, con me generosa, ho trovato al contrario disponibilità, occasioni di dialogo, collezionisti, insomma un profondo interesse per la mia pittura, in un ambiente vivace e scevro da preclusioni mentali.
Ho lasciato via via Verona, Milano e Roma per necessità di un confronto più ampio. L’Italia non fa testo nei circuiti esteri, gli artisti noti sono al massimo tre, e sono sulla scena da oltre dieci anni. Non c’è ricambio, è tutto statico. New York, d’altra parte, è ancora il centro mondiale dell’arte contemporanea, come all’epoca di Leo Castelli.

Quali sono le sue fonti d’ispirazione (oltre al manierismo e al colorismo veneto che ha osservato, respirato fin da ragazzo, essendo nato a Verona)?
Mi hanno sempre affascinato le immagini dei corpi statuari, dalla bellezza scolpita; i colori vivaci; il disegno dall’effetto volumetrico, mantegnesco; poi i fumetti, le illustrazioni. Ed oggi mi suggestiona la potenza espressiva dei videogiochi.

La sua pittura si contraddistingue per la dinamicità delle scene. Stupiscono gli avviluppamenti serpentiformi delle sue figure titaniche, simili ai giganti di Giulio Romano a Palazzo Te di Mantova. Piacciono i suoi eroi contemporanei e antichissimi insieme, immortalati in opere dall’effetto tridimensionale, ispirate alla realtà. Quanto ha influito la tecnologia digitale nella sua produzione?
Moltissimo, anche per il fatto che la uso direttamente nel processo di elaborazione dei miei dipinti. Affianco al disegno e alla pittura una sofisticata tecnologia: non dimentichiamo però che dietro al digitale c’è sempre la manualità.

E quanto conta l’elemento “spettacolare”?
Dipende dall’opera, dal soggetto che intendo realizzare. Ogni opera ha una sua storia. Qualche volta mi interessa costruire una scena di forte impatto – spettacolare, appunto -; altre volte sono attratto dall’idea di rappresentare figure in contesti più raccolti. Non ho una regola fissa, insomma: tutto dipende in realtà dal mio stato d’animo.


Ci descrive la sua tecnica?
Un illusionista non rivela mai i trucchi del mestiere… Rispondo evidenziando che il mio è un processo lento e sofisticato, basato sul disegno dei dettagli, sulla resa plastica dei corpi, sulla ricerca dei colori ad effetto volumetrico e sul dosaggio della luce, e che gradatamente si cristallizza nell’immagine finale grazie al digitale. Digitale che mi permette di aggiungere tridimensionalità alle scene e di continuare nella contemporaneità l’esperienza della figurazione.

 Che cos’è, per Nicola Verlato, la pittura nella cultura di oggi?

E’ il naturale sviluppo della nostra tradizione figurativa. I programmi di photoshop non sono altro che strumenti a disposizione dell’artista, al servizio di un ideale di bellezza. La tecnica digitale è un medium per comunicare attraverso le immagini, come è avvenuto nel passato con i dipinti. Il digitale visualizza un mondo virtuale, sfonda barriere, crea spazi dell’illusione ottica, esattamente come ha sempre fatto la pittura.

Da ospite degli States: quali sono i pittori americani che preferisce?
I classici come Hopper, i protagonisti della Pop art… Tra i giovani non so scegliere. Mi trovo peraltro un po’ a disagio di fronte a distinzioni geografiche. Credo che gli artisti debbano avere una visione cosmopolita, la vera pittura è sempre stata internazionale e non ha mai avuto confini territoriali: per questo è oltre il tempo e non segue le mode.