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Vittorio Botticini -Testimonianze


Il pittore sulla luna
 
Vittorio Botticini
rimase incantato
dai viaggi spaziali,
dedicando al tema
una delle sue ultime opere,
in cui sembra chiudersi
con la forza del simbolo
il tragitto circolare
di una carriera artistica
votata alla ricerca
continua e coraggiosa
di nuovi linguaggi
 
 
di Maria Zanolli
 
 
Fra tutte le cose che Ermete Botticini mi ha raccontato di suo padre Vittorio, me n’è rimasta in mente una, per niente importante, ma che è tornata come un fulmine quando ho riguardato i quadri dell’artista. “Papà si stupiva dei viaggi sulla luna. Se ne stava a osservare incantato e sbalordito, quei rari momenti sembravano saziare la sua infinita curiosità”.
Così, trovandomi di fronte Astronauta (1975), una tra le ultime opere di Vittorio Botticini – morirà nel 1978, a pochi giorni dal suo sessantanovesimo compleanno -, ho pensato che avrei potuto partire da qui per parlare del singolare lavoro del pittore bresciano. Anche perché, come spesso capita nell’evoluzione stilistica di un autore, la produzione più tarda evoca gli inizi, quasi a voler chiudere il cerchio.
Quell’astronauta con i contorni definiti e strutturati, il colore nitido e ben steso, esprime, simbolicamente, il senso di eterna ricerca del percorso di Botticini, ma è anche un chiaro recupero del passato, degli anni del dopoguerra, di quando Vittorio dipingeva i cantieri navali, l’industria, i paesaggi urbani, dando il via – in una Brescia che continuava a premiare la pittura di maniera – ad una coraggiosa sperimentazione postcubista.
In realtà, il vero esordio di Botticini risale ad un periodo precedente, al 1938, con la conquista, grazie a Figure di operai in officina, del Legato Brozzoni. Già nelle prime opere il nostro non rinuncia a confrontarsi con le avanguardie, sebbene la tensione innovativa dei tempi “illuminati” sia ancora di là da maturare appieno.
Nel 1941, l’artista viene richiamato alle armi; tornato a Brescia, in attesa di destinazione, sposa Giulia Iole Smussi, e con lei va ad abitare in contrada San Giovanni. E’ un momento fondamentale questo, perché nel quartiere Vittorio si trova a contatto con Guglielmo Achille Cavellini, Ermete Lancini, i fratelli Ghelfi, Aride Corbellini, Enrico Ragni, Piera Carla Reghenzi, insomma quei pittori attenti alla modernità che si riuniranno nel sodalizio di via Mameli.
La guerra allontana ancora una volta Botticini dall’attività creativa: ma è proprio nel 1943 che egli, spinto anche dal sostegno di un amico collezionista, allestisce la sua prima personale alla galleria di Rinaldo Schreiber, dove espone 68 opere realizzate tra il 1937 ed il 1942. Nel maggio del 1945 nasce l’associazione Arte e cultura (la futura Aab), e Vittorio ne è tra i principali sostenitori. Ci avviciniamo oramai al suo periodo pittorico definito da taluni cubo-futurista e che si esprimerà in quadri come Natura morta con fruttiera e vaso (1948), Ritmo del porto (1949-50), Porto di La Spezia (1949-50).
Il nostro si trova nei posti giusti e con le persone giuste. All’Accademia Cignaroli di Verona conosce Manzù e Tomea, tra i precursori della svolta antinovecentista di Corrente. A Brescia frequenta Birolli, il quale sta aiutando Cavellini a comporre quella che sarà la più importante collezione d’arte contemporanea d’Italia. E nel 1947, anno della mostra degli Indipendenti nelle sale del milanese Palazzo Reale, sulle pagine del Corriere della sera Costantino Baroni ne consacra il successo critico: “Tra le poche cose buone fa piacere segnalare i due intensi paesaggi di Vittorio Botticini: un pittore che vorremmo conoscere meglio, perché il suo linguaggio cézanniano avviato sulle linee di un Lapique e di un Birolli denuncia, per ora, notevole scioltezza espressiva”.
Gli studi sul Cubismo proseguono e si evolvono nelle stagioni successive fino alla metà degli anni Cinquanta, quando il lavoro dell’artista giunge alla fase astratto-concreta. Botticini aveva fatto propria la teoria dello spazio fenomenico e ondulatorio che, come diceva Birolli, “non stringe mai l’oggetto in una morsa, per farne una forma solitaria”. Ma era vicino anche a Cassinari, non identificandosi fino in fondo nell’astrattismo, perché “la pittura non potrà mai essere staccata dalla realtà delle sensazioni, né avulsa dalla gioia e dalla presenza delle cose”.
A questo felice periodo segue, dal 1956 al 1960, un momento di crisi, dovuto pure a problemi economici e di salute. La ripresa avviene con la sua seconda personale – nel 1963, a vent’anni di distanza dalla prima – alla galleria dell’Aab di via Gramsci: da qui comincia una nuova fase, quella informale, a cui possiamo legare opere dove riaffiora un afflato naturale, quali Luce radente (1963) e Disgelo (1964), o all’insegna di tecniche e ipotesi espressive differenziate, quali Lettere emergenti (1965) e Pietra di lava (1966), in cui il nostro utilizza il collage.
Andiamo verso gli “spazi inquieti” di Vittorio Botticini: da una parte troviamo quadri in cui si nota un dissolvimento di forme e colori, con la rievocazione di atmosfere magiche dettate anche dall’attualità – i viaggi sulla luna, per l’appunto -, e dall’altra, invece, un aspetto “costruttivo”. Come si diceva all’inizio, l’estrema stagione del pittore si ricongiunge agli esordi, quasi a voler recuperare un proprio mondo, a ritornare alle origini con il cuore, pur avendo negli occhi e nelle mani l’esperienza di mezzo secolo dedicato alla tavolozza.