In copertina: la performance documentata dalla fotografa Giovanna Dal Magro
Si spogliarono. Si misero nudi sotto la porta d’ingresso principale della Galleria Comunale d’Arte Moderna di Bologna. Con la schiena contro lo stipite, si guardavano negli occhi restando a una distanza – obbligata – di poche decine di centimetri. E il pubblico? Doveva scegliere se entrare o andarsene. E se fosse entrato sarebbe stato inevitabile il contatto con i corpi nudi. E scelta l’entrata, come in un gioco, dovevano scegliere se trovarsi incollati e sfiorare il volto a lui o a lei. La performance “Imponderabilia” (1977) entrò immediatamente nelle Memorabilia, le cose da non dimenticare nel campo dell’arte e del costume. Splendide le fotografie, opera di Giovanna Dal Magro, che possiamo vedere sotto il titolo.
Questo lavoro, ormai leggendario, fu compiuto dalla grandissima Marina Abramović e da Ulay. Non è la nudità sfacciata e imperturbabile che cattura l’attenzione dell’osservatore, ma è la reazione del pubblico alla situazione imponderabile in cui si viene a trovare. Osservando i visitatori che entrano nel museo, diventa subito chiaro che la maggior parte di essi scelgono di affrontare l’Abramovic, suggerendo che il modulo di nudo femminile è meno minaccioso rispetto al nudo maschile. La gente passa comunque in fretta, manifestano sforzo e imbarazzo, e non accenna il un minimo contatto visivo con Abramovic e Ulay. Raramente si guarda alle spalle dopo che è passata. La caratteristica della vulnerabilità che normalmente accompagna la figura nuda è stata trasferita completamente al visitatore vestito, messo in “analisi”.
Furono 350 le persone che transitarono faticosamente sotto questa porta stretta, prima che la polizia fermasse i due autori della performance.
La Abramović disse alle forze dell’ordine che lei e Ulay erano “porte viventi”, che trovano molto poetiche: “Se non esistessero artisti, non ci sarebbero musei, quindi siamo porte viventi”. Ma la legge non ama queste cose. E apparve ridicola, come spesso si rivela, con la propria stolidità, Del resto Bologna, in quegli anni, era un centro di primaria importanza nell’ambito del dibattito artistico e politico-rivoluzionario. E non fu un caso che la performance sia avvenuta proprio in quella città
“Chiamammo questo gioco imponderabilia. In un lampo di secondo il visitatore del museo doveva assumere una decisione, forse senza capire il motivo per cui l’aveva presa”. dice Ulay
Marina Abramović (1946) è nata a Belgrado, in Jugoslavia, ed ora vive a New York, Stati Uniti. Ha iniziato il suo lavoro come esecutore di performance nei primi anni ’70 ed è ora considerata la massima artista di questa disciplina artistica. Il suo lavoro esplora la relazione tra l’esecutore e il pubblico, i limiti del corpo e le possibilità della mente. Nel 2017 il suo lavoro è stato oggetto di due importanti retrospettive, al Museo d’arte moderna di Stoccolma e al Louisiana Museum of Modern Art di Humlebæk.
Ulay (Frank Uwe Laysiepen, 1943) è un artista tedesco, che oggi lavora tra Amsterdam e Lubiana, in Slovenia. Ulay ha ricevuto riconoscimenti internazionali per le sue opere di fotografo, soprattutto con la Polaroid, dalla fine del 1960, e poi come artista di performance, campo in cui ha collaborato con Marina Abramović dal 1976 al 1988. Affronta, dagli esordi, temi politici, dell’identità e delle identità di genere. Nel 2016 Schirn Kunsthalle a Francoforte, Germania, gli ha tributato la prima grande mostra retrospettiva, “Ulay Life-Sized”.