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Alla ricerca dei ritratti nascosti



di Sandro Guerrini

Ceruti1In mancanza della sottoscrizione autografa dell’opera o del documento d’archivio che ne provi la paternità, gli studiosi di storia dell’arte si appoggiano su numerosi altri indizi per riconoscere l’autore di un dipinto o di una scultura. Indagando lo stile, la composizione, la tecnica, i colori, i materiali impiegati, si può arrivare ad una certa soglia di attendibilità, che non corrisponde però mai alla certezza assoluta.
L’attribuzione e la datazione sono invece assai vicine alla sicurezza quando si ha la fortuna di poter individuare nel quadro o nell’affresco (più difficilmente nella scultura) l’immagine di un personaggio storico realmente esistito; ancor meglio se si scopre tra le diverse figure proprio il volto dello stesso autore.
Gli esempi non mancano, e voglio qui presentare alcuni dipinti che ho studiato recentemente.

Agostino Gallo in una tela
del Moretto nella Parrocchiale di Borgo Poncarale

Si discute da tempo sull’autografia della tela conservata sul primo altare alla destra di chi entra nella chiesa parrocchiale di Borgo Poncarale, raffigurante San Rocco medicato dall’angelo, san Francesco di Paola e san Fermo, ed il giudizio degli storici dell’arte è per lo più restrittivo nei confronti dell’opera, forse anche in conseguenza delle condizioni non certo eccellenti del dipinto, costellato da cadute di colore.
Già mons. Paolo Guerrini nel 1940 scriveva che il quadro, “erroneamente attribuito al Moretto, è però una buona tela di ignoto pittore della fine del Cinquecento”, mentre Camillo Boselli e Gaetano Panazza sottolineavano i pregi della pittura, “sia o non sia opera del Moretto”. Recentemente don Begni Redona ha ripreso in considerazione la pala, ospitandola nel catalogo delle opere del Moretto tra le copie e le derivazioni.
Tutti gli autori collegano comunque in qualche modo il dipinto con Agostino Gallo, che a Borgo trascorse gran parte della vita, confondendosi quasi con gli originari del paese. Nelle pagine del suo prestigioso trattato di agricoltura il piccolo centro della pianura bresciana giganteggia, vero e proprio luogo dell’anima: “Nel Territorio Bresciano, copioso di amene e delitiose Ville, si ritrova essere il Borgo di Poncarale, detto anticamente Ponte Carrato, dove come in un ridutto pieno di ogni dolcezza, e quasi centro fatto dalla Natura di tutti gli altri circonvicini Villaggi, sogliono ragunarsi quei gentil’huomini che la maggior parte dell’anno vi dimorano, per godersi ne i loro honorati diporti…”.
Tanto affetto doveva tradursi necessariamente in un dono tangibile che ricordasse per sempre agli abitanti di Borgo quel loro illustre concittadino. Fu così che Agostino Gallo donò, poco prima di morire, e cioè intorno al 1570, alla nuova Parrocchiale di Borgo, staccata canonicamente dalla matrice di Poncarale nel 1548 e quindi probabilmente povera e disadorna, un dipinto a lui carissimo, che gli era rimasto come ricordo dell’amico Alessandro Bonvicino, di cui era stato esecutore testamentario e per gli eredi del quale aveva venduto gli ultimi quadri rimasti in bottega.
Tra le diverse tele egli prese per sé, insieme ad un autoritratto del pittore – ora disperso -, quella che gli ricordava più da vicino il suo impegno per i malati e gli emarginati, impegno che l’aveva portato a diventare Massaro dell’Ospedale grande di Brescia.
Scelse così il San Rocco medicato dall’angelo che forse fu pure caro al Moretto, poiché l’autore conservò con devozione questa replica dell’opera eseguita per la chiesa di Sant’Alessandro in città (l’originale è ora al museo di Budapest).
Per rimarcare ulteriormente la sua personale attenzione alla carità, Gallo si fece poi ritrarre accanto a san Rocco da un altro pittore – forse il Richino o il Mombello – nelle vesti di san Francesco di Paola, preferendo ad una piatta ed insignificante iscrizione questo curioso, ma non inusitato modo per ricordare l’impegno di tutta una vita. E fece aggiungere anche san Fermo, per raccomandare al Signore i suoi campi ed i suoi armenti. Confrontando il viso di san Francesco con l’effigie di Agostino Gallo eseguita dal Becceni per la riedizione delle Dieci giornate della vera agricoltura, si resta sorpresi dalla profonda somiglianza dei tratti somatici.
Nel frontespizio del libro l’immagine è rovesciata, segno evidente che è stata ripresa specularmente da un antico originale che non è comunque la nostra tela, ma che doveva invece avere dimensioni minori.
Il ritratto rivela un’impietosa accentuazione dei difetti del viso: il naso grosso ed irregolare, gli occhi un po’ bovini, le sopracciglia vagamente “diaboliche”. Ben diverso – anche se somigliante – è il ritratto del frontespizio delle Sette giornate dell’agricoltura (1569), nel quale l’autore è presentato pomposamente alla maniera dei magistrati veneti, incorniciato da un’iscrizione celebrativa che ricorda la sua veneranda età di settant’anni.
Ed è proprio l’età dimostrata dal san Francesco di Borgo Poncarale: di conseguenza, l’aggiunta delle figure dello stesso san Francesco e di san Fermo dovrebbe risalire appunto al 1569-1570.
L’ipotesi è confortata dall’analisi compositiva dell’opera, che risulta per così dire scalibrata dall’“intromissione” dei nuovi venuti, i quali sembrano turbare con il loro brusio l’assorta serenità di san Rocco e dell’angelo guaritore. Un attento esame della tecnica esecutiva, supportato dalla riflettografia, conferma poi la sensazione visiva.
La materia pittorica della parte autografa, stesa con pennellate sfumate, si apparenta a quella delle opere realizzate dal Bonvicino dopo il 1545 (Santi Cosma e Damiano di Marmentino, pala di Santa Maria della Pietà, pala di Sarezzo, Caduta della manna di San Giovanni Evangelista, Convito dell’Agnello del Duomo di Brescia). Più nervosa, più sottile e calligrafica è invece la pennellata del ritratto di Agostino Gallo e del san Fermo.
Ci auguriamo che un prossimo, esemplare restauro consenta di valutare meglio l’importanza di questo lavoro, che arricchisce di nuovi spunti lo studio della produzione estrema del grande artista cinquecentesco.

Il Ceruti e Matilde de Angelis
come san Giuseppe e l’Immacolata
nella Canonica di Prandaglio

Forse l’ultimo soggiorno del Ceruti in terra bresciana, prima della partenza del 1734 per Gandino e poi per Padova nel 1736-37, si consumò a Prandaglio di Villanuova sul Clisi.
Così sembrano testimoniare le opere che ho avuto la fortuna di ritrovare lì (sei ovali e una Deposizione), commissionate con ogni probabilità da un parroco amico ed ospitale, fervente ammiratore dell’artista al punto da tollerare la sua unione clandestina con Matilde de Angelis, la giovane modella che il pittore si era portato dietro, abbandonando l’ignara famiglia in città.
Tanta confidenza ed una così benevola indulgenza sembrano suggerite dal fatto che tra i sei ovali, raffiguranti San Carlo Borromeo, San Francesco d’Assisi, l’Ecce homo, San Girolamo, San Giuseppe e l’Immacolata, ve ne sono due – gli ultimi appunto – che sotto le sembianze del falegname di Nazareth e della sua sposa celano le effigi del Ceruti stesso e della modella preferita.
Basta fare un veloce raffronto con l’autoritratto conservato ad Abano Terme e datato 1737, con l’Autoritratto in costume di collezione privata e con la figura femminile a mezzo busto della pinacoteca svedese di Mora, già da tempo schedata come ritratto della donna del pittore, per essere più che convinti.
La “spudoratezza” del Pitocchetto si può forse spiegare supponendo che pure a Prandaglio, come poi a Padova, lo stesso abbia spacciato la giovane compagna come sua legittima moglie.
Al di là della curiosa sfumatura biografica, queste opere che si aggiungono al catalogo sacro dell’artista, databili intorno al 1734 per i rimandi ad altre tele di quegli anni e per le analogie con i due citati ritratti – eseguiti al culmine del soggiorno padovano -, illustrano assai bene il periodo, aggiungendo a quanto conoscevamo interessanti rimandi alla pittura del Cinquecento bresciano, in particolare quella del Romanino, nella figura di san Girolamo, e quella del Savoldo, nelle vesti di lampeggiante seta che compaiono nella Deposizione.
Anche a Prandaglio, come a San Faustino di Bione, a Rino di Sonico, a San Colombano, a Gandino, il Ceruti pone la sua opera a completamento del rifacimento architettonico e decorativo di una chiesa. Inoltre, la nuova luce che da Prandaglio viene alla biografia del pittore può servire a spiegare ulteriormente la sua vita errabonda, prima legata alla comunità di Bione, e poi segnata da questo segreto amore, assai compromettente per uno come lui che aspirava con ogni forza a raggiungere la fama e la celebrità quale creatore di pale d’altare.
Altri interessanti esempi di autoritratti cerutiani si possono individuare raffrontando il Cristo portacroce di collezione privata bresciana, esposto nella mostra Dal Moretto al Ceruti in Valle Sabbia del 2002, con lo Spillatore del ciclo di Padernello, o comparando il San Girolamo di Prandaglio con il San Luca di collezione privata di Calvagese della Riviera, reso noto da poco.


Un probabile autoritratto
del Correggio
in una collezione
privata bresciana

A proposito delle sembianze fisiche del Correggio disponiamo di una discreta documentazione, che va dal probabile autoritratto negli affreschi della cupola del Duomo di Parma ad una serie di incisioni, scalate dal 1647 (illustrazione delle Vite del Vasari, edizione bolognese) al 1830 (V. Rolla).
Una così copiosa messe di immagini e di riproduzioni fa supporre l’esistenza di numerosi autoritratti da cavalletto (contrariamente a quanto afferma il Vasari), ora purtroppo perduti o dispersi. Da tempo la mia attenzione è stata sollecitata da una tela (olio, 93×65 cm), appartenente ad una collezione privata bresciana, che raffigura San Francesco in lacrime, nell’atto di pregare, investito dal lume di una candela o di una lucerna, coperta dal libro delle orazioni.
L’effetto luministico di grande intensità e la tonaca strappata che ricorda il panneggiare del Morazzone o di Francesco Cairo, mi fecero subito pensare ad un’opera ancora cinquecentesca, anche se il dipinto veniva attribuito a Cifrondi.
Le forti componenti correggesche, ma pure un certo manierismo espressionistico alla tedesca nel taglio degli occhi e nel duro arcuarsi del naso, mi avevano suggerito in un primo tempo il nome di Lelio Orsi; tuttavia vi erano, nel modellato e nell’uso della luce artificiale, una dolcezza ed una malinconia che il maestro di Novellara non possiede.
Una comparazione con i volti delle figure della cupola di San Giovanni Evangelista mi suggerì l’idea che il quadro potesse essere un autoritratto del Correggio, forse l’estrema sua preghiera in occasione della malattia che lo portò alla morte ancor giovane nel 1534.
La presenza del saio francescano sarebbe dovuta alla particolare devozione che il pittore portava per il santo di Assisi (le prime opere documentate dell’artista furono eseguite per la chiesa francescana del paese natale, ed egli nel testamento stabilì che il suo corpo fosse inumato proprio in quella chiesa).
Ma queste non sono che coincidenze marginali: raffrontando attentamente i tratti somatici del San Francesco bresciano, deformati dalla luce giallastra del lume nascosto tra i libri, con le incisioni che ritraggono il Correggio, soprattutto con la più antica, quella del trattato vasariano, si resta meravigliati per la grande somiglianza.
Lo stesso naso vistosamente adunco, gli stessi occhi sporgenti, la stessa barba incolta che allunga il viso scavato. Ma non è tutto. Scorrendo la produzione dell’Allegri e comparandola con l’opera di Brescia, si giunge ad individuare un altro autoritratto – più giovanile del nostro – nella figura di gentiluomo conservata nel Museo del Castello sforzesco di Milano e fino ad oggi dubitativamente riconosciuta come un’effigie del re di Francia Francesco I.
Anche qui il pittore ama rappresentarsi ad occhi bassi, assorto in una lettura che supponiamo di argomento religioso ed alla quale allude forse il giovane cervo o capriolo che sullo sfondo si addentra nella foresta, immagine dell’anima cristiana che cerca la fonte della salvezza.

Artemisia Gentileschi
nelle sembianze
della Maddalena convertita

Nella stessa collezione si trova un frammento di un più ampio dipinto, raffigurante una dama elegantemente vestita, coperta di gioielli e con i capelli sciolti, che guarda con commozione e contrizione verso qualcuno esterno al quadro, ma che non è lo spettatore.
La soluzione dell’enigma è venuta alcuni anni fa, con la comparsa sul mercato antiquario bresciano di una tela attribuita dal Salerno ad Andrea Vaccaro ed effigiante la Conversione della Maddalena.
Nel dipinto – di qualità buona, ma inferiore al frammento che qui si propone – la figura di sinistra è identica alla nostra misteriosa dama, mentre sulla destra è rappresentata una donna in umili vesti nell’atto di indicare il cielo. Il catalogo dell’asta, appoggiandosi sulla comunicazione scritta del Salerno, parlava di Due virtù, ma più correttamente si deve appunto pensare ad una Conversione della Maddalena, con la santa sulla sinistra e con la sorella Marta sulla destra.
Il frammento bresciano è dunque il risultato di un taglio compiuto su di una tela delle stesse dimensioni, uguale in tutto, ma non nella qualità. Ed è proprio questa superiore qualità che fa considerare l’opera del Vaccaro come una copia e il nostro dipinto come una reliquia dell’originale.
Esaminando poi bene il frammento, in alto a sinistra sembra di intuire nella superficie tormentata un ampliamento della tela originaria ammalorata ed accartocciata, ottenuto con la tela di rifodero. La delicatezza dei trapassi cromatici e delle ombreggiature, indurite leggermente lungo il profilo sinistro della figura in ombra dal restauro eseguito nell’Ottocento
– subito dopo il ritaglio -, rimanda con sicurezza ad un grande artista della scuola fiorentina del primo Seicento.
Osservando con maggiore attenzione l’opera, si riscontra la presenza di elementi della maniera di Orazio Gentileschi e di sua figlia Artemisia, che segnò profondamente la scuola pittorica di Firenze e Napoli nei primi tre decenni del XVII secolo.
Addirittura, il viso della Maddalena sembra proprio un autoritratto della giovane artista, da collocare tra il 1610 ed il 1615. I lineamenti ricordano con precisione l’autoritratto che compare nella Susanna e i vecchioni della Galleria di Pommersfelden, firmata e datata 1610. Le forme più opulente e più mature, anche nel corpo della ragazza, fanno supporre una datazione un poco posteriore a quella della tela tedesca.
E’ oltremodo interessante notare come il Vaccaro abbia tratto una copia diversi anni dopo, in quell’ambiente napoletano dove la pittrice chiuse la sua attività intorno al 1653.