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Così Armani si ispira alla storia dell'arte


Prosegue il viaggio di “Stile” nell’alta moda, alla scoperta del complesso di relazioni che intercorrono tra questo ambito creativo e le arti figurative. Enrico Giustacchini ha incontrato Giorgio Armani.
Nei confronti delle sue creazioni viene usato frequentemente il termine “minimalismo”. Storicamente, ciò è stato riferito ad un contesto di crescente democratizzazione della società contemporanea. Da un punto di vista di “filosofia” estetica, può essere ritenuto logica conseguenza della sua convinzione che “la moda debba essere semplice, pura, chiara”. Esistono, nella sua moda, anche precisi rimandi alla Minimal art, che affida alla linearità delle forme il ruolo di esprimere e di comunicare?
Il minimalismo fa parte della mia natura, del mio modo di vivere, mangiare, dosare le mie apparizioni mondane. Ed è stato, fin dall’inizio della mia carriera, anche la bandiera del mio stile, denso di contenuti e privo di inutili supporti. L’equivoco in cui troppo spesso si cade nel parlare di concezione minimalista della moda è lo scambiare la semplicità con la banalità. Credere che una gonnellina e una maglia dall’aspetto povero siano un messaggio etico all’interno della ricerca estetica. Mentre spesso sono soltanto il parto del minimalismo inteso come trend anziché come concezione dello stile. Come ecologia della forma anziché della sostanza, e dunque della mente.


Ancora a proposito di “minimalismo”. La sua nota passione per le culture etniche africane ed asiatiche, per la “semplicità” di cui spesso esse sono portatrici, è da ascriversi in tutto o in parte a tale lettura?
Direi di sì, proprio perché il mio concetto di minimalismo comprende una linearità sontuosa, una ricchezza di materiali che con un certo pauperismo – la conseguenza estremista del minimalismo – c’entra poco. Di queste culture è l’essenzialità funzionale, che non rinuncia al piacere della decorazione, ad avermi colpito. Al punto che ho cercato di portarla anche nel mio lavoro.

Non mancano, nei suoi abiti, i richiami alla pittura dell’Estremo Oriente, sia pure profondamente reinterpretati alla luce della tradizione occidentale: le decorazioni delle porcellane cinesi, i paesaggi giapponesi… C’è qualche autore – o qualche periodo – che predilige in questo contesto?
Provo un’incredibile attrazione per Hokusai e per i dolci paesaggi che Hiroshige Hitsu dipinse verso la metà dell’Ottocento. Ma ad affascinarmi sono gli incroci, le contaminazioni, le suggestioni: è il quadro “La Japonaise”, che Monet presentò al secondo Salone degli Impressionisti, ma anche la stupenda serie “Nymphéas”, realizzata oltre trent’anni dopo. Pure Manet, Degas, Van Gogh si collocano all’incrocio tra Occidente e suggestioni giapponesi, nell’epoca in cui Hiroshige era talmente famoso in Europa che Van Gogh fu un appassionato collezionista delle sue stampe. Anche per questo, forse, amo tanto gli impressionisti.

Le forme. Nel 1989, in un’intervista al “New York Times”, lei manifestava la volontà di “cambiare la forma delle cose”. Germano Celant rammenta la sua costante attenzione all’importanza dei cambiamenti strutturali legati all’architettura di forme e volumi. Da qui l’intuizione della “destrutturazione” degli abiti, che altera e capovolge le regole, al fine di creare un nuovo stile…
 La forma è sempre stata uno dei miei punti cruciali di impegno. E sempre è il frutto di una riflessione, un pensiero meditato, ma anche il riflesso di un sentimento, di una sensazione che mi si è chiarita soltanto in seguito. La giacca destrutturata è giustamente ricordata come il simbolo della mia moda perché ha rappresentato una rivoluzione che, dal 1980 in poi, ha cambiato il destino di questo indumento. Quando cominciai a disegnare, tutti gli uomini erano vestiti allo stesso modo, con una specie di uniforme, a volte più larga a volte più attillata, ma non cambiava granché. Così cercai di personalizzare la giacca rendendola più consona a chi la indossava. Come si poteva ottenere? Togliendo la struttura e trasformandola in una seconda pelle. Così ho costruito un tipo di giacca rilassata, informale, meno rigida, che lascia intuire il corpo e la sua sensualità.
Veniamo all’uso del colore. Celeberrimo è il suo “greige”, punto d’incontro tra grigio e beige. Si parla poi di “colore neutro”, di “non colore” nato da innumerevoli varianti di colori secondari e terziari (sempre Celant ha scritto di colori “che vivono sulla zona liminale di una definizione, diffondono un’altra vaghezza che non è soltanto lo stato tremolante dei generi, ma la situazione transitiva del croma”), in una tavolozza che si direbbe ispirata ai mutamenti luminosi, persino “meteorologici” del paesaggio che ci circonda. E’ possibile definire allora Giorgio Armani come un “pittore” tonale?
E’ un complimento che accetto volentieri, perché una delle mie prime esigenze, quando disegno una collezione, è la tavolozza dei colori. Molte volte mi capita di non trovarle, quelle sfumature, nei tessuti già esistenti. Perché le ho immaginate io, stabilendo una relazione profonda tra i miei disegni e i colori. Gli uni e gli altri contribuiscono a dare forma e un’identità che è tanto più forte e determinata quanto meno ha bisogno di affidarsi alla provvisorietà del clamore. E’ nota la mia predilezione per le tonalità neutre e soffici. Quando scelgo un colore, anche nero, lilla o turchese, lo voglio filtrato, vissuto. Raramente mi seduce la sfumatura pura, che trovo troppo cruda e, in fondo, semplice.

In qualche caso, lei si è lasciato affascinare dalla potenza del nero, evocando esplicitamente l’arte di maestri americani dell’Informale, come Rothko, od ancora come Reinhardt, con le sue opere monocromatiche, i suoi quadri “tutti neri” che a loro volta si ispiravano a Malevich. E’ stato osservato peraltro che lei ha “rivitalizzato” tali evocazioni, arricchendole, grazie all’uso di tessuti diversi che producevano differenti gradazioni ed oscillazioni ottiche, di nuovi equilibri. Può dirci qualcosa in proposito?
Mi interessa sempre il giudizio dei critici perché mi aiuta a capire meglio le ragioni profonde di un lavoro istintivo. Io posso stare per ore a scegliere e confrontare le sfumature dei colori. A volte mi chiedo se ciò si noti, sulla passerella, e non mi so dare una risposta. Ma anche se non è possibile distinguerlo chiaramente, credo che “si senta”. Come si sente la profondità di Malevich, uno dei miei pittori prediletti, la cui influenza sull’arte moderna è stata immensa, malgrado la vita e la storia drammatiche. E la censura, che lo colpì nel periodo del realismo socialista, quando vecchi collezionisti e curatori dei musei nascondevano le sue opere nelle cantine.

Trasparenze e opacità. Metallicità e riflessi cangianti. Serico e vellutato. Solo dati visivi e tattili o qualcosa di più? Viene da pensare ad una voluta ricerca di contrasti, anche simbolica. Ricordiamo ad esempio, che per la compresenza di erotismo e di modestia nelle sue creazioni si è parlato di influenza della cultura e dell’arte vittoriana, sospesa tra riserbo e sensualità.
Se dovessi descrivere con una parola sola la mia moda, direi: contrasto. Visivo, tattile, di proporzioni, di sensazioni. Contrasto per ri-creare una forma nuova e più complessa di equilibrio e armonia. Per spingere oltre la definizione del gusto, per suscitare sentimenti anche contraddittori. Così io credo che da un abito Armani, in genere molto composto, possa sprigionarsi un erotismo che forse non è immediatamente comprensibile, ma può incantare chi lo capisce.



In una sua collezione, lei ha mescolato alla gamma cromatica più consueta la vivacità dei rossi, dei verdi, dei rosa e dei blu matissiani. In un’altra, ha raccolto gli echi dei quadri astratti di Kandinskij. Come annota Caroline Rennolds Milbank a proposito dei suoi abiti, “le gonne da sera in tulle e chiffon hanno la consistenza fragile di quelle indossate dalle ballerine di Degas. Le giacche possono evocare i farsetti medievali o le tuniche dei paggi dei dipinti fiorentini… I capi di Armani condividono una precisione ‘quattrocentesca’ con le figure di Giotto”. Ma quanto è importante, per lei, l’arte? E – pur dando per assodato ciò che lei ha dichiarato una volta, e cioè che “un vestito non è un quadro che si appende ad una parete, è qualcosa che la gente non solo deve desiderare, ma anche indossare con piacere per vivere meglio” – lei ritiene che la moda sia essa stessa una delle forme dell’arte?
Ho con l’arte il rapporto di chi ama il bello e naturalmente ha bisogno delle immagini, delle forme, dei colori e anche di quelle speciali emozioni che suscita un’opera d’arte per trovare ispirazioni al suo lavoro. Quanto al discusso quesito se la moda sia arte, mi viene da rispondere di no: per me, fare moda significa disegnare un abito portabile, che faccia sentire a proprio agio – ma speciale – chi lo indossa. E se uno degli aspetti della mostra del Guggenheim è la celebrazione di questo progetto, allora mi rende ogni volta felice. Perché premia una coerenza che non è stata semplice da rispettare e che ha richiesto un costante esercizio di disciplina. (2004)