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Baj: "Che noia questa Biennale dell'eccesso"


di Anna Maria Di Paolo

bai41Della sua ricerca, dagli anni ’50 ad oggi, sono maggiormente conosciuti i quadri. E’ pertanto straordinaria l’attuale esposizione di sculture nello scenario di forte suggestione storica e architettonica della Rocca di Forlimpopoli? 
Io ho spesso praticato l’arte plastica tridimensionale. Ho cominciato nel ’54 quando mi sono applicato alla ceramica ad Albissola con forme a tutto tondo, bassorilievi ed anche altorilievi. Poi ho ripreso dopo un anno a Faenza dove ho realizzato molte ceramiche ad altorilievo per il ciclo delle mie opere kitsch. Negli anni ’63-’64 ho dedicato la mia attenzione ad un materiale infantile estremamente costruttivo, il meccano, eseguendo numerose sculture che furono esposte nella mia sala alla Biennale di Venezia del ’64. Ho sempre tenuto presente il meccano, che poi ho introdotto anche nei quadri. Sono quindi passato alle famose marionette dell’“Ubu Re” (1985). Nel 1993 ho cominciato a dedicarmi all’arte tribale, creando una serie di maschere della moderna primitività. E’ noto che in seno al moderno, accanto alla civiltà tecnico-scientifica, alberga il desiderio per il primitivo e il naturale, un senso del paradiso perduto, essendo la civiltà d’oggi piena di meccanismi e automatismi. Le maschere tendono anche talvolta ad assumere una forma eretta, totemica, tridimensionale che va ad accamparsi nello spazio, mentre le maschere vere e proprie invece possono restare tranquillamente appese al muro. Sono nati così i “Totem” (’96-’97), che hanno alla base l’ispirazione primitiva, tribale, africana e quella eretta di un tronco d’albero scolpito e messo lì a fare da spirito protettore, da divinità, da presenza ultraterrena e ultranaturalistica. I miei “Totem” si ispirano a questa verticalità. Però sono andato oltre e, ripensando alle pietre tombali e ai sepolcri – come quello di Ilaria del Carretto -, o alle statue giacenti dei re di Francia conservati nell’Abbazia di Saint Denis vicino Parigi, ho realizzato i “totem” del re Enrico II e della sua sposa, la regina Caterina dei Medici, stendendoli come fossero totem tombali. Ulteriori figure che ho rappresentato, il Savonarola, altri re o anche figure di fantasia, con vari riferimenti – credo abbastanza ironici – vuoi al totemismo, vuoi al potere.
Veniamo alle opere recenti: Il grande quadro “Dodici miliardi per il 2003”, sull’esplosione demografica, ha un anello di congiunzione con il ciclo dell’“Apocalisse epocale” del ’79?
Sì, c’è un collegamento. L’esplosione demografica è uno dei grandi pericoli di un’umanità incontenibile sia negli sprechi, sia nell’inquinamento sia nel moltiplicarsi. Noi sappiamo che l’uomo del benessere sta radendo a zero le foreste e sta sfruttando le risorse della terra al massimo grado, nella necessità di dare da mangiare a tutti. L’aumento della popolazione, quindi, si traduce in un pericolo molto grave. Questo fatto è già stato denunciato da Lorenz, che mi ispirò l’“Apocalisse ecologica” del ’79-’85. E tra i peccati capitali della moderna umanità e civiltà l’etologo mette, appunto, anche l’aumento vertiginoso e incontrollato della popolazione.
Cosa aggiungerebbe alle graffianti denunce dall’antimilitarismo dei “Generali”, al “BerlusKaiser” del ’94 sulla presa di potere dei mass media?Aggiungerei che purtroppo il fenomeno non è da attribuirsi neanche a questo o a quel Berlusconi, ma al fenomeno globale capitalistico del denaro e delle speculazioni. Non si pensa ad altro. Si vuole far credere che più denaro si ha e meglio si sta, ma non è vero. Si muore comunque, né si può alterare la propria età biologica. Certo si può godere di maggiori agi, ma anche questo è relativo: nella società capitalistica, ad esempio, abbondano gli obesi. Come vede il connubio del potere virtuale dei media col potere reale?
Sempre Lorenz, tra gli altri peccati capitali metteva la distruzione della tradizioni. L’appiattimento, ecco il rischio. E la diatriba è aperta tra i tradizionalisti incapaci di adeguarsi ai tempi e di prevedere il futuro e gli antitradizionalisti ritenuti i distruttori delle culture. E questo è vero.
Del resto, senza tradizioni come faremmo ora io e lei a parlarci? 
Il nostro linguaggio è basato sulle tradizioni della lingua e della cultura di un Paese, condizioni totali di comprensione. Anche tutti i nostri comportamenti sono basati sulle tradizioni: guai, dunque, a distruggerle.
In che misura l’arte influisce sui comportamenti sociali e sulla cultura?
Io negli anni sono giunto alla conclusione che combatto solo battaglie perse. Da noi prevale il consumismo, come quello che ho visto alla Biennale. Prevalgono mondanità e sprechi, come le ferraglie arrugginite che solo per il trasporto costano miliardi. E non mi vengano a dire che c’entra Bernini, perché col Bernini non hanno proprio nulla a che spartire. Ritengo che allo stato attuale non ci sia nessuna possibilità di influire su un cambiamento reale sia della società che della cultura
Ma quale influenza ci può essere quando i gruppi di potere tipo quello di Berlusconi, o della Fiat o americano dicono: “Cerchiamo altri sistemi”?
Ma quali altri sistemi, sono tutte stupidaggini che non influiscono sul pregresso. Il sistema del secolo appena trascorso, del resto, è stato responsabile di milioni di morti; e ancora oggi chi sbandierava la bandiera della libertà si è rivelato guerrafondaio e massacratore. Le guerre a livello locale continuano, e si proibisce perfino di sottoscrivere trattati contro le mine antiuomo.
A cosa serve l’arte, che cosa può cambiare in simili condizioni?A proposito della Biennale: quanta “arte inattuale”, quella che a suo dire “ci propizia novità mentali”, è presente nell’edizione attuale della manifestazione? 
Per la Biennale il vero rilievo che si può fare è quello dell’eccesso, che è una cosa pericolosissima in tutti i campi. Parmenide diceva che prima di spegnere l’incendio bisognava spegnere gli eccessi. L’eccesso dell’informazione produce l’annullamento dell’informazione Alla Biennale succede che i visitatori guardano le prime proposte e poi procedono, dando un’occhiata sempre più distratta.
Allora lei è per una selezione più calibrata e rigorosa?
Non è questione di selezione rigorosa. E’ che la Biennale non ha più niente a che fare con le arti plastiche e figurative, che sono arti della contemplazione e del silenzio. La Biennale ha a che fare col desiderio di creare un evento di traduzione mediatica di cui parlino tutti. E’ come nella politica, in cui per avere clienti bisogna distribuire delle cose. Così ogni artista porta familiari, parenti, amici e su Venezia si scatena una massa di gente che fa gridare all’enorme successo. E’ un po’ la tecnica di Lauro, che sotto le elezioni distribuiva una scarpa sì e una no, mezza moneta con l’altra metà da ritirare a voto avvenuto. Tutti colpi da politicante.
Allora per lei è ininfluente la personalità del Direttore della Biennale?
Sì, è ininfluente. L’attuale Direttore, che è un furbacchione, ha dichiarato di aver avuto nella scorsa edizione trecentomila visitatori . Ora sappiamo bene come si fanno i visitatori grazie ai pacchetti turistici. E in estate comunque non c’è molta gente perché la Biennale, passata tutta l’eccitazione iniziale, non interessa nessuno. E’ solo un giro forzoso. Il richiamo poi si fa coi titoli roboanti, come “Platea dell’umanità”. Ma quale umanità, col degrado degli ultimi anni! E poi molte sono le cose che non funzionano, non ultimi i cessi, come ben ha rilevato l’articolo della Aspesi su “Repubblica”, che mi è tanto piaciuto da proporle di riprodurlo nel mio prossimo libretto francese dal titolo “L’orrore dell’arte”. Però avrà visto che lo stesso giornale, quasi per farsi perdonare il delitto di lesa maestà al sistema dell’arte, il giorno dopo ha pubblicato un articolo di D’Amico che inneggiava alla Biennale.
E che dire del “Manifesto”, su cui Poli ha dedicato all’evento quattro pagine? Ha invocato la spiritualità di Beuys per fare confusioni terribili, del tipo: la Biennale è piena di fatti spiritualistico-metareligiosi, dal Padiglione russo a quello inglese con l’“Ecce Homo”, e alla fine dice : e tutto questo significa la fine del materialismo nello spiritualismo. Mi pare veramente eccessivo che un giornale comunista scriva questo. Non poteva scrivere: la fine dello spiritualismo nel materialismo americano?
E’ molto severo. Szeemann comunque ha anche voluto privilegiare nella selezione l’arte dell’Africa e dell’America Latina.
Anche questa disgrazia doveva capitare ai Paesi del Terzo mondo, di essere selezionati da Szeemann? Non bastano le tante ingiustizie che già abbiamo loro addossate?
Ciò non cambia nulla, non risolve nessuno dei loro troppi e gravi problemi.
Può farci un consuntivo della sua ricerca?
Riconfermo la sintesi della battaglia persa per le ragioni già dette. Mi conforta di aver mantenuto una certa coerenza attraverso una linea antieversiva, antiviolenta ed ecologica; e ciò mi dà alcune piccole soddisfazioni, come quella di aver avuto tra i sostenitori uomini tra i più interessanti al mondo, quali Baudrillard, Mafessoli e Morin.
Ha concluso il ciclo dei “Guermantes”?
Sì. In questo ciclo sono interessato anche ai temi ludici e ironici, come quelli di “Ubu re”. Proust mi affascina perché da una parte è scrittore raffinato e dall’altra è venato da una grande ironia. Inoltre rappresenta la mia continuità di colloquio con la letteratura.
In questo primissimo scorcio di terzo millennio quali progetti e speranze ha, lei che spesso è apocalittico e mai integrato?
Mai integrato! Faccio quello che posso. Ho scritto anche, e a lungo, su giornali di potere, come il “Corriere della sera”, che mi ha dato molto spazio e da cui non ho mai avuto nessuna censura. Sto preparando un testo per una mostra all’estero di Jorn, con cui ho iniziato una collaborazione dal 1953. Siamo sempre stati contro la razionalizzazione dell’arte, contro un movimento che, come già era avvenuto in architettura, si basa sul funzionalismo, quasi un’automatizzazione di ogni sentimento e una produzione di immagini d’invenzione con l’introduzione sempre più rilevante della geometria in arte, a cominciare dal signor Mondrian. Il razionalismo è peraltro irragionevole, e già ci sta uccidendo perché con tutti i meccanismi e macchinismi, in nome di una vita più comoda, porta alla distruzione dell’uomo e del mondo.
Della sua Fondazione non si parla? Come mai?
No, mai. Ora poi è chiusa col pretesto che il palazzo è inagibile. Anche a Parigi ho dato quadri e libri, ma credo che giacciano lì dimenticati. Oggi c’è l’empito di lasciare ai posteri la propria produzione. Ma poi, chi la va a vedere? Chi la mantiene? L’unica Fondazione che va bene è la Mazzotta, sponsorizzata da Comune, Provincia e Regione. Allestisce però mostre di scarsa rilevanza, per cui si va a vedere Kandinskij e si trovano dieci quadri invece dei cento che si potrebbero esporre a Palazzo Reale. A Lugano in tal senso si fanno proposte più interessanti. Quanto al mio lavoro in questo periodo sono in pausa di riflessione, ed in attesa di avere nuova ispirazione.