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Caravaggio alla corte dei principi Giustiniani


Caravaggio

Stile Arte ripropone un’intervista a Silvia Danesi Squarzina, realizzata in occasione della mostra “Caravaggio e i Giustiniani”.

La mostra dedicata a Caravaggio e i Giustiniani esplora un nuovo filone nel campo della storia dell’arte, e cioè il rapporto tra committenza e artista nell’ambito dell’orientamento dell’opera. Ciò significa non dimenticare mai che l’artista del passato teneva conto dei suggerimenti del committente, il quale diventava in questo modo, per usare un termine filmico, co-sceneggiatore dell’opera stessa. Ci vuole raccontare quali erano i rapporti tra Caravaggio e i Giustiniani?



Quanto e in che modo questi ultimi incisero sulle scelte pittoriche del grande pittore?

Indubbiamente la committenza Giustiniani ebbe una grossa influenza su Caravaggio. I due fratelli erano proprietari di ben quindici dipinti del maestro, e sono stati senz’altro tra i suoi maggiori ammiratori ed acquirenti, probabilmente i primi a comprendere a fondo il peso della novità caravaggesca. Notiamo che tra la fine del Cinquecento e i primi anni del Seicento, Caravaggio cambia il suo modo di dipingere, accostando il tema sacro. Molte chiese della capitale ed ordini religiosi di tipo pauperistico e predicatore gli commissionarono incarichi che senz’altro contribuirono alla svolta in questa direzione. Il Cardinale Benedetto Giustiniani, che dei due fratelli fu il più influente, personalità molto attiva soprattutto dal punto di vista dell’impegno filantropico (era vicino alla Riforma cattolica e quindi estremamente desideroso di notevoli cambiamenti all’interno della Chiesa), fu, insieme ad altri prelati, tra coloro che spinsero Caravaggio a diventare testimone della Chiesa che vuole rinnovarsi. Nei suoi dipinti si assiste alla comparsa di figure che appartengono ai ceti meno abbienti, di diseredati, all’affermazione di un naturalismo, di un’aderenza al vero mediata però dal filtro dell’antico. Il Marchese Giustiniani scrisse di Caravaggio che, in una scala di valori, egli rappresentava il punto massimo proprio perché sapeva dipingere “il naturale” utilizzando la lezione della Maniera, dei grandi maestri del passato.

Questa mostra è frutto di un’operazione di intelligence. Come in un romanzo giallo, lei ha lavorato alla ricerca dei capolavori dispersi ed ha raccolto il nucleo fondamentale della collezione Giustiniani. Come ha potuto ricostruire le diverse strade di questa diaspora pittorica? Quali sono stati i colpi di scena e le difficoltà?
La prima tappa, senz’altro la più lunga e approfondita, è stata quella della ricerca d’archivio. Sulla base di questa sono emersi nuovi elementi sulla figura del cardinale Benedetto; attraverso lo studio dei suoi inventari è stato possibile ricostruire il nucleo più antico della collezione. Nel 1815 un nucleo importante di dipinti fu acquisito e portato in Germania: questi sono stati quelli di più semplice reperimento. Grazie poi alla fase successiva di indagine, basata su criteri di tipo attributivo, sono state fatte alcune interessanti scoperte. Per cominciare è stato possibile rintracciare un ciclo di quindici dipinti di Albani, mai pubblicati, dei quali cinque presenti in mostra. Altro interessante risultato è stato giungere all’attribuzione certa di un quadro di un pittore fiammingo, vicino a Poussin e Duquesnoy, Carlo Filippo Spierink, raffigurante “Agar soccorsa dall’angelo”. A questa attribuzione ho potuto collegare un pagamento effettuato allo scultore Dusquesnoy per il restauro di una statua appartenente alla Collezione. Ed ancora, un restauro eseguito su un dipinto di Lorenzo Lotto dal Paul Getty Institute ha rimesso in luce una striscia di tela che era risvoltata sul telaio, portando alla luce un particolare con una mano che regge un libro e confermando l’identificazione dello stesso nella descrizione data dall’inventario di un giovane con in mano un uffiziolo.
La pittura di Caravaggio è senz’altro prodotto di un forte retroterra pittorico lombardo – già ampiamente orientato alla ricerca di un realismo possente – e dei nuovi elementi che l’artista assorbe dalla pittura romana. La mostra presenta anche un’opera del Cavalier d’Arpino, pittore presso cui Caravaggio fu a bottega nei suoi primi anni romani…
Il soggiorno romano fu senza dubbio molto importante, anche perché nella bottega del Cavalier d’Arpino lavoravano alcuni artisti nordici, e dunque Caravaggio ebbe il modo di confrontarsi direttamente – oltre che con l’ambiente romano – anche con figure ad esso estranee e complementari. Del resto lo stesso Cavalier d’Arpino era culturalmente molto preparato, e sebbene i suoi esiti, da un punto di vista puramente artistico, risultassero nettamente inferiori a quelli di Caravaggio, egli fu comunque all’altezza di offrire al Merisi un confronto dialettico molto fruttuoso.



Le tecniche seguite da Caravaggio. Da qualche anno è stata messa in luce una modalità totalmente nuova, priva di disegno sulla tela. Può raccontarci come dipingeva?
E’ noto che Caravaggio non giungeva al dipinto attraverso il disegno, e su questo gli studiosi concordano. Dipingeva di getto. Con uno strumento, che probabilmente è identificabile con la stessa coda del pennello, tracciava dei rapidi segni di preparazione della tela, con cui abbozzava i contorni e le proporzioni, e poi procedeva direttamente col colore. Piuttosto si è appurato che ripassava i contorni, in un secondo momento, per aumentare i contrasti e dare così maggiore risalto alle figure. Un buon lavoro di ricerca è stato effettuato anche sull’utilizzo dei pigmenti: ad esempio si è scoperto che Caravaggio usava il cinabro per gli incarnati, e questo dato è un’ulteriore conferma circa l’attribuzione (che risale a Longhi) del “San Gerolamo” di Montserrat.
Nei quadri più elaborati egli costruiva una sorta di set teatrale con i suoi modelli. Non è possibile che questa grande rapidità esecutiva nascesse dalla necessità di risolvere rapidamente – eppur con grande efficacia – ciò che sarebbe stata una posa estenuante e complessa?
Certo, la pittura dal vero richiedeva tempi di esecuzione molto lunghi. Pare che Caravaggio avesse quel dono speciale della rapidità, insieme a quello della bravura, che – come lo stesso Vincenzo Giustiniani affermava – “è un dono di natura, o lo si possiede o non c’è nulla da fare…”. Ulteriore conferma di questo suo modo immediato e rapido di dipingere e di “costruire” l’opera in fieri è rintracciabile in alcune radiografie delle tele appartenenti alla Cappella Contarelli, che mostrano tutta una serie di figure abbozzate e poi abbandonate, proprio come se man mano egli mutasse l’impianto della composizione.
Sempre nell’ambito dei modelli, ci si chiede come, ad esempio, questo pittore potesse usufruire dei volti di cortigiane per realizzare dipinti dedicati alla Madonna, e come i committenti – che conoscevano bene l’ambiente romano – accettassero questi prestiti fisionomici particolarmente imbarazzanti…
Sottolineerei il fatto che le cortigiane più belle, dotate di più personalità, per quello che era il costume dell’epoca, non erano emarginate, ma perfettamente inserite nella vita sociale. Si trattava tra l’altro di donne quasi sempre colte, che vivevano sì in maniera molto libera, non tradizionale, ma che godevano comunque di un loro riconoscimento sociale. E non bisogna dimenticare che, in quegli anni di Riforma, la Chiesa stessa accoglieva queste donne nel tentativo di redimerle. Tentativo che spesso riusciva: non è un caso che nel periodo si diffonda la tematica delle “cortigiane convertite”.
Negli scorsi anni si è acceso il dibattito attorno all “Narciso”, opera di struggente dolcezza e bellezza che per certi aspetti pare togliersi dalla gamma psicologica dei personaggi caravaggeschi. A suo giudizio il lavoro può essere attribuito al Merisi?
Sì, sono decisamente a favore dell’attribuzione a Caravaggio di quest’opera, che presenta una tale qualità di esecuzione da lasciare pochi dubbi in merito. (marzo 2001)

 NEL VIDEO UN VIAGGIO TRA LE OPERE DI CARAVAGGIO

 

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