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Sai cos’è il Realismo esistenziale?


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di Flaminio Gualdoni

cazza4Dove siano, come recita il poeta, le dame d’un tempo, non so. Ma certo i climi, almeno quelli, piacerebbe riviverli. Incontrare, fra le vecchie mura milanesi di corso Garibaldi 89, la storica Casa degli artisti, Chet Baker o John Coltrane che escono dallo studio di Giancarlo Cazzaniga. Oppure andare alla Taverna messicana, al Santa Tecla, e trovare tra gli spettatori di Enrico Intra o Franco Cerri il Cazzaniga medesimo, e i suoi amici pittori, e intellettuali di varia umanità.
A poterli rivivere, quei momenti ci insegnerebbero una cosa: che le vulgate dell’arte – ma anche i pensosi saggi specialistici – si dimenticano con regolarità. Ci dicono, i testi che si pretendono sacri, che esisteva una Milano artistica giocosa, di spirito tra surreale e paneroniano, quella dei nucleari e degli spaziali e dintorni, polemica e avanguardistica, e un’altra invece più introversa e melanconica, che l’appellativo di esistenziale, peraltro nato da un’intuizione critica felice di Marco Valsecchi, ha caricato di un alone di engangement incupito, estraneo al sorriso.

Vero, Cazzaniga e i suoi amici, Vaglieri come Ferroni, Romagnoni come Ceretti, Guerreschi come Bodini, Ossola come Aricò, erano degli engagés e degli enragès, anzi, alla milanese, degli incazzati. E volevano una pittura di realtà che si sottraesse al passo protocollare della referenza, così come alle servitù ideologiche degli sbandieratori della politica. E guardavano a modelli alti. Bacon e Giacometti – il Giacometti pittore, più, con quei suoi rapporti agonici con il visibile -, ma anche Beckett e Butor. Ma amavano vivere con pari – e forse meno recitata, e più agonistica – pienezza, e ascoltavano la musica dell’anima, quel jazz che allora era parte viva d’una cultura (un’intera edizione del premio Graziano, al Naviglio, è dedicata al tema), e che con l’arte pareva aver stabilito, da noi, solidarietà fervide: a Roma, d’altronde, Coltrane e Miles Davis s’incontravano con i Novelli, i Perilli, altri enragés mica male.
Cazzaniga fa, in quel tempo, della musica qualcosa più che una nourriture intellettuale. Ne fa un tema pittorico, forte, preciso che gli consente di scavare nell’atmosfera intensiva e autre che quei gesti, quei suoni, quei rituali fanno accadere: che è la stessa dei dilucoli, delle luminescenze, dei bagliori improvvisi, che si alzano a farsi tracce grafiche emozionate, e scambi sottili, come brividi, di tono, negli altri soggetti praticati in quel tempo, l’umile ostensione del tavolo da lavoro o la penombra della stanza, o il silenzio assorto della spiaggia, ugualmente. Certo è una pittura non compiacente, sottratta con volontà inflessibile alle tentazioni del gusto che pure l’informale in quella fine degli anni Cinquanta va accogliendo con sempre minor consapevolezza di sé. Ed è una pittura che, parimenti, non vuol sottrarsi al “parti pris des choses”, e le cose affrontare in pienezza emotiva, in feroce lucidità nell’avvertimento del sensibile, e del proprio sentire allo stesso modo. Nervenkunst, si diceva oltre cent’anni fa, indicando tale stato di non morbosa eccitazione affettiva di fronte alle situazioni, che si fa ragione e senso della scrittura stessa della realtà. Nel caso dei “Jazzmen” di Cazzaniga, il rapporto è doppio, reso complesso e ancor più ricco dall’adottare come movente dell’espressivo una situazione già d’arte, già dell’espressivo, agendo per streams attorti e felicemente contaminati.
Non è un caso che, dai decenni trascorsi, e dopo bagni sontuosi in un sensuale di natura spinto sino a una sorta di eros coloristico, e nella stagione degli à rebours e, forse, dei bilanci, Cazzaniga abbia sentito ricrescere quella struttura d’immagine, quel tema, per le vie d’una trattazione grafica di forzato dinamismo, per scarti squillanti di timbro e sottigliezze di tono. Non è un caso anche perché, se lo incontri, dopo un po’ di tempo passato a far la parte del vecchio pittore saggio Cazzaniga ti molla e torna ad ascoltarsi un disco: e così capisci che è uno vero.(stile arte, 2002)