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Cena in Emmaus – La scelta del thriller nel quadro di Moretto, regista del Cinquecento


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di Maurizio Bernardelli Curuz
La cifra del mistero, l’incommensurabile malinconia, l’apertura di qualcosa che vibra, al di là delle apparenze. La Cena in Emmaus è uno dei capolavori di Moretto, e nell’ambito del racconto di questo episodio cruciale – poiché in esso si manifesta la continuità della presenza di Cristo nel pane dell’eucarestia -, risulta come una delle massime raffigurazioni di tale segmento evangelico nella storia dell’arte, grazie al sapiente lavoro di regia condotto dal pittore lombardo.
Nemmeno Caravaggio, con la scioltezza straordinaria del segno e la violenza di un piano del presente che colloca Cristo vincitore accanto ai discepoli cenciosi – così da segnare e ribadire l’avvento della pittura di genere-, riesce a cogliere quel senso di magia promanata dall’uomo che palesandosi per un viandante sconosciuto si rivelerà come il Salvatore. E qui sta la differenza tra i due artisti: se Moretto, con un segno composto e aulico orienta la propria preghiera pittorica di profondo credente alla valutazione dell’enigma, il secondo, da rivoluzionario, getta Cristo al centro della scena con la forza di un gladiatore, evitando tanto ogni languore poetico quanto ogni ammirata devozione nei confronti del pellegrino. Moretto fa scivolare lo spettatore e i personaggi del Vangelo verso il buio che si rivela nei prodromi opprimenti che hanno dilaniato i due discepoli sulla strada di Emmaus.

Gesù è stato crocifisso ed è morto. Il suo corpo è scomparso. Chi ha creduto in lui viene colto da un’abissale solitudine, che non è soltanto il dolore della separazione, ma la sofferenza legata a un’idea lancinante di abbandono e di teologico fallimento. In quei terribili istanti in cui tutto trascolora, quando la notte si avvicina con il suo velo nero per far dilagare la perdita del Senso, i discepoli pregano il viandante sconosciuto, che si rivelerà successivamente Cristo, di restare con loro, ché si fa sera.

Moretto importa nel quadro – realizzato attorno al 1526 – il modello letterario dell’agnizione, che risulterà uno degli elementi dirompenti nell’ambito del romanzo popolare e, successivamente del thriller. Quell’atto di riconoscimento di persone che, secondo la definizione canonica, avviene alla fine dei drammi. Ma il momento scelto non è direttamente quello delle conseguenze del disvelamento e della rivelazione. E’ l’attimo in cui il sospetto sta prendendo il corpo di una granitica certezza. Mistero e scioglimento del nodo interrogativo permangono sulla stessa scena, alimentando un dramma psicologico, svolto nella penombra della sera inoltrata e aperto alla gioia deflagrante che è lì, pronta a manifestarsi.

Per raggiungere questo senso di incombente e dilagante mistero, il Bonvicino sprofonda la scena nelle tenebre che avvolgono i personaggi destinati a precipitare nel vuoto. L’invenzione di Moretto si riferisce alla creazione di un’attesa, di una sospensione spasmodica, sottolineata dall’oscurità profonda dalla quale prendono corpo le figure dei discepoli, del Signore, e del misterioso testimone, sulla sinistra del dipinto, appoggiato alla balaustra, come sbilanciato da quella che non è una semplice curiosità verso gli avventori, ma una fatale attrazione nei confronti della scena che si dischiude al suo cospetto. Un contesto quasi sinistro, come un viaggio céliniano al limite della notte, in cui l’artista colloca persino, a simulare l’aria torbida del buio malfido, un gatto dallo sguardo torvo; un maschio dal muso preminente e inquietante, che sembra alleato del demonio, pronto a ghermire gli astanti e a trascinarli nel gorgo oscuro. La luce stessa, traversa e artificiale, il colonnato plumbeo che sicuramente sottolinea un presagio ecclesiale, il fremito che attraversa l’elegante corpo della fantesca che, portando la pietanza in tavola, s’avvede della premonizione miracolosa alla quale è chiamata in qualità di inconsapevole testimone: sono elementi scenici con funzione raggelante. E’ lì attorno che, tra un attimo, avverrà la rivelazione prodigiosa.
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Il cappello del viandante, sul quale appaiono i chiodi che ricordano il sacrificio della croce e altri distintivi del pellegrino – medagliette votive che interloquiscono con la conchiglia di Santiago di Compostela, utilizzata come prova del pellegrinaggio al santuario spagnolo e trapuntata sull’abito – spiove sul volto di Cristo, quasi a celarne le fattezze, per quanto esso appaia circonfuso da una lieve luminescenza che è l’indizio dell’incipiente epifania del figlio di Dio.
 
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