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Cerritelli, la pittura aniconica italiana tra opposizione alla Pop art ed atti meditativi


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L’intervista di Stile Arte a Claudio Cerritelli in occasione dell’uscita del suo libro “Pittura anoconica. Arte e critica in Italia. 1968-2007.
La cosiddetta “pittura aniconica”, nel suo affermarsi in Italia, a partire dal 1968, può essere coinsiderata una sorta di contestazione alla Pop art e all’opera-prodotto? E’ una ribellione alla tradizione rappresentativa che si sviluppa nel clima di quegli anni o,al contrario,va posta come ideale continuazione dell’astrattismo di Malevich e Mondrian?
Il termine “aniconica” indica una situazione complessa della ricerca contemporanea, che ha le sue radici nelle avanguardie storiche di segno astratto, dal Suprematismo alle tendenze costruttiviste, dall’astrattismo geometrico alle risonanze liriche dell’immagine non figurativa, fino alle formulazioni di carattere analitico. Nel mio libro ho cercato di ragionare intorno alle molteplici componenti didi questo territorio negli ultimi quarant’anni, dalla crisi dei modelli estetici decretata intorno al 1968, fino alla persistenza delle ricerche pittoriche dell’attualità, fortemente limitate dal protagonismo delle nuove tecnologie. E’ chiaro che la “pittura aniconica” si pone come una costellazione variegata di poetiche che nulla ha in comune con l’idea di merce estetica proposta dall’ideologia della della Pop Art. Non a caso, sia i critici che i pittori sottolineano più il processo della ricerca-creativa che il prodotto-merce, più le implicazioni della visione interiore che la dimensione omologante del mercato.

Ci parli di due fondamentali momenti espressivi della pittura aniconica: la monocromia e l’uso della geometria
La questione della monocromia viene sentita come tensione conoscitiva del fare pittorico, che dalla lezione di Malevich si sviluppa fino all’attualità non solo come azzeramento programmatico del colore-luce, ma anche come indagine interna alla consistenza del colore, delle stratificazioni del pigmento, del diverso andamento delle pennellate. Si tratta, dunque, di un lavoro sulla qualità della materia come spazio di trasformazione del colore, soprattutto quando esso è ridotto a elementi monimali, bianco su bianco, rosso su rosso, nero su nero e via dicendo. In questo sensi si colgono diversi atteggiamenti che oscillano dall’emotività soggettiva del gestoa quella più analitica dell’atto esucutivo, che non implica alcun aspetto idividuale, alcun palpito soggettivo.
Anche per quanto riguarda l’uso della geometria va sottolineata l’apertura di sguardo rispetto ad una dimensione univoca del linguaggio razionale. Infatti si passa da soluzioni di tipo logico-costruttivo che indicano un’organizzazione dell’immagine di tipo matematico a soluzioni di carattere lirico dove ciò cheprevale è lo stato d’animo fantastico, il sentimento dello spazio come luogo di risonanze della memoria e del vissuto. Come si vede, l’idea di geometria comporta una complessità di scelte che mostra legami sia col sapere scientifico sia con le valenze poetiche del colore-luce.
 
Perchè il 1972 e il 1977 sono anni decisivi per fare il punto attorno alla pittura aniconica?
Il 1972 è l’anno di avvio di un consistente periodo di mostre pubbliche e private che decretano un forte ritorno di interesse nei confronti del dipingere di tipo aniconico (definito “Nuova pittura” o “Pittura analitica”). Questo comporta un rilancio e una verifica di tutte le componenti del dipingere, degli strumenti del fare alle ragioni teoriche, dalle componenti elementari del colore alle sue complesse articolazioni.
Intorno al 1977 nasce un interesse verso l’ambientazione spaziale degli elementi pittorici che viene definita “disseminazione”. Si tratta di un’ulteriore verifica del dipingere dove emergono le esperienze di artisti come Pinelli e Gastini, Ortelli e Martini.
La tensione verso la purezza del colore, con le sue variazioni tonali e la luce che si concretizza in un volume geometrico che interagisce con lo spazio, ha ancora un senso nella nostra epoca bulimica di immagini?
La ricerca di pure tensioni cromatiche testimonia un tipo di esperienza che ha caratteri specifici e non trascrivibili in altri linguaggi. Dunque la pittura aniconica esprime un’identità legata a modi di essere non spoettacolari e non iper-divulgativi, ma dediti alle rivelazioni di emozioni sottili, di eventi reconditi, di soglie taciute, di minimi spostamenti dello sguardo: ciò che non si vede e si immagina di vedere. Questioni forse superate dalle preoccupazioni dell’attualità, a mio avviso ancora cariche di fascino e di futuro, soprattutto in quanto motivate da una vitalità non omologata dal colore come linguaggio intersoggettivo.
Chi sono, a suo giudizio, i maggiori protagonisti della pittura aniconica in Italia? Possiamo considerarli autonomi dai riferimenti americani come Still, Newman, Rothko, Reinhardt?
Se consideriamo gli artisti che si sono affermati negli anni Settanta, penso alle esperienze di Rodolfo Aricò, Giorgio Griffa, Claudio Olivieri, Gianfranco Zappettini, Carmen Gloria Morales, Vincenzo Cecchini, Enzo Cacciolla, Paolo Cotani. Anche solo attraverso questi esponenti si comprende l’impossibilità di utilizzare un’unica categoria storico-critica per avvicinare il senso del loro diverso lavoro. Il modo con cui questi autori si riferiscono alla pittura americana non è diretto, ma è sempre filtrato dalla sensibilità poetica dell’arte europea. Molto affascinante è per i pittori italiani l’idea di Reinhardt, quando dichiara che l’artista dipinge continuamente la syessa forma, concentrandosi unicamente sui propri mezzi e processi di lavoro. Altrettanto seducente è la tensione espressa da Rothko di entrare a far parte del dipingere come totalità fisica e mentale. Una critica capace di tener conto di questi aspetti è quella che immmagino idonea a comprendere i problemi sollevati dai pittori, non solo interessata ai problemi teorici, ma ai tempi e ai modi in cui la pittura incontra l’osservatore su un piano di reciproca relazione. (Stile arte,  giugno 2008)