Alla Fondazione Maeght di Saint-Paul-de-Vence, che accoglie una delle maggiori collezioni d’arte moderna e contemporanea d’Europa, è stato possibile un interessante confronto tra le opere grafiche dei due grandi autori, dialogo che fu al centro della bella mostra Chagall/Miró. Magia, grafia, colore, allestita nell’Auditorium Sant’Agostino e nella Pinacoteca Moretti di Civitanova Marche Alta. Intorno alla figura di Aimè Maeght e di sua moglie Marguerite, a partire dal 1964 si riunirono alcuni tra i più grandi talenti artistici del tempo.
Diversi per nascita e formazione, Marc Chagall e Joan Miró (insieme con Giacometti, Braque, Léger, Bonnard, Kandinskij), non soltanto esposero nello spazio dei Maeght, ma ne contribuirono alla costruzione, collaborando con l’architetto catalano Josep-Lluis Sert e creando opere perfettamente integrate all’edificio e alla natura circostante. Chagall, che si trasferì a Vence nel 1949, realizzò il grande mosaico intitolato Les Amoreux, posato sulla facciata, mentre Miró, che ebbe un rapporto unico con l’istituzione francese, trovò qui l’ambientazione ideale delle proprie opere e ne progettò di nuove, adattandole agli spazi, come l’arco d’ingresso e l’insieme delle sculture in ceramica e bronzo che costituiscono il labirinto del giardino. Pur nella diversità di percorsi e di soluzioni estetiche, esistono non pochi elementi che accomunano nel profondo i due artisti. Due mondi diversi, che si guardano.
L’uno, quello di Chagall, tutto declinato in senso lirico e sognante, l’altro, quello di Miró, più concreto e materiale, ma entrambi accomunati da un’identica, estrema libertà espressiva e dalla capacità di riversare nelle opere un’inconfondibile dimensione evocativa e onirica. Inventori di insolite soluzioni formali e abilissimi nell’uso del colore, Chagall e Miró accostarono entrambi l’arte grafica in età matura, e vi si dedicarono non come a una tecnica minore o complementare all’attività pittorica, ma come a un’esperienza fondamentale nella ricerca dell’espressione totale, una forma creativa irrinunciabile, forse la più indicata a sondare le potenzialità del segno e del colore, capace, peraltro, di dare una linfa nuova e fecondissima alla loro produzione. E’ il 1922 quando Chagall, già all’apice della carriera, si cimenta per la prima volta con l’incisione, accingendosi a realizzare le tavole che illustreranno la sua autobiografia, Ma Vie. Due anni dopo sarà la volta delle serie di acqueforti destinate a illustrare Le anime morte di Gogol, Le favole di La Fontaine e la Bibbia.
La passione di Chagall per la litografia si connota come un crescendo che non conosce eguali, frutto di una ricerca costante che lo conduce ad essere considerato un maestro del genere. Nella sua carriera realizzò complessivamente circa millecinquecento litografie, arrivando a mettere a punto una vera e propria rivoluzione tecnica, con l’uso di un arco cromatico esteso fino a 20-25 colori. Chagall incide il suo mondo fantastico, legato a favole e leggende, un mondo in bilico tra realtà e simbolo. La poetica dell’artista russo, com’è ben noto, è caratterizzata da alcune costanti psicologiche e iconografiche: la famiglia, il Paese d’origine, la vita dei contadini, i sogni della giovinezza, il rito e la tradizione ebraica; temi vissuti e reinterpretati secondo una trasfigurazione lirica della memoria, che conferisce al suo racconto un carattere di favola e che non ha mai perduto la precisa unità di stile anche nei periodi di più intenso rapporto con altre ricerche. Se nel lavoro di Chagall la pietra diventa mistica, quasi magica, lo strumento grazie al quale l’artista sente di poter trasmettere gioie e tristezze evocando una dimensione onirica e irreale, in Miró tutto è invece concretezza e materia: nel suo metodo incisorio la linea, cifra per eccellenza dell’autore, esprime il suo valore più puro, abdicando alla funzione di semplice perimetro per assumere quella di simbolo. Il maestro catalano considera incisione e litografia come il mezzo per dare risposta alle proprie esigenze espressive di libertà e fantasia.
Il suo spirito multiforme, il suo desiderio incessante di rinnovarsi e di non cedere al rischio dell’immobilismo artistico, trova sfogo nell’esperienza e nella sperimentazione di tecniche diverse. Egli realizza la maggior parte delle litografie tra gli anni Quaranta e i Settanta, nello stesso periodo cioè in cui si applica con maggior assiduità alla ceramica e alla scultura, quasi come se il tratto lineare e lieve, ma insieme profondo e incisivo, che caratterizza l’opera grafica fungesse da bilanciamento alla concretezza e alla materica corporeità del rapporto con argilla e bronzo. I segni incisi sono forme espressive più libere, che meglio concorrono a ricreare il mondo immaginifico dell’artista, conferendo corpo agli archetipi che divengono temi ricorrenti nella sua attività creativa: la stella, la donna, il sesso, l’albero, il sole e la luna. Le grafiche furono eseguite soprattutto nella fase più matura della carriera, quando si assiste al prevalere di un desiderio di sintesi, in cui il cosiddetto “miniaturismo” di Miró (dove ogni dettaglio è centrale) si compone in ampie visioni d’insieme, dove tutti gli elementi del mondo, riportati alla loro essenza primitiva, sono presenti. La traduzione cromatica di questo percorso sintetico è individuabile nell’uso crescente del bianco e del nero, che assumono il predominio rispetto agli azzurri, ai rossi e ai verdi.
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