di Maurizio Bernardelli Curuz
Pur attraverso l’ellisse del simbolo, Giacomo Ceruti –soave cantore di pietà evangeliche – affrontò anche il genere erotico. Un eros in alcuni casi così velatamente accennato, in altri dotato di un’intensa evidenza metaforica, come dimostra il dipinto “La cuoca e il portarolo”. Nell’opera, che qui presentiamo, la donna appare sontuosamente abbigliata e agghindata come le popolane di Campi, non oggetto di rappresentazione realistica, ma dipinte secondo un registro simbolico che allude al concetto di abbondanza. La giovane, prosperosa signora presenta infatti una sontuosa collana di perle e un voluminoso orecchino. Alimenta poi gli equivoci carnali con una rosa morbidamente collocata tra i capelli. Il fiore, nelle volute, è qui un esplicito richiamo alle labbra del sesso femminile. Elementi decorativi che non ci fanno tanto pensare a una servetta, ma a una padrona di casa – fresca e volgare – fortemente inclinata, come confermano anche i tratti fisionomici – il mento pieno, le labbra tumide, il collo possente, l’incarnato del volto di complessione sanguinea – all’atto sessuale. Il dipinto, sotto il profilo narrativo si sviluppa su un topos che, pur essendo evidentemente antico, perdura attualmente nella letteratura pornografica attraverso la situation comedy dell’incontro tra la casalinga, sola tra le mura domestiche, e il garzone – negli Stati Uniti scenette erotiche ricorrenti si riferiscono alla casalinga che accoglie a sé, con entusiasmo, il nerboruto fattorino che le consegna, nello stesso tempo la pizza e se stesso -. In Ceruti, il garzone, appena giunto nell’abitazione con un ampio cesto, osserva il suo facile, opimo boccone con uno sguardo che lascia apparire gioiosi intendimenti, giacché la signora stessa, fortemente illuminata dal pittore, quanto la carne e i frutti appoggiati sulla tavola, si rivela, nella fresca carnalità e nel seno ricco di morbide e ampie promesse, un genere altamente commestibile. Prima il cibo, poi il sesso quindi. E se il lettore avesse dubbi rispetto a questa lettura, la prova definitiva della licenziosità cortese del dipinto è fornita dalla mano destra della signora, che impugna con voluttà il codino di vitello, nello stesso modo in cui, poco più avanti, brandirà l’organo sessuale del suo ospite del quale la piccola verga è immagine di prologo. La scena cambia, pur nella persistenza di un’intensa carica erotica, ne “L’incontro al pozzo”. In questo caso siamo realmente al cospetto di una giovanissima serva che, scesa da casa per raccogliere l’acqua in un vaso di rame, incontra un cacciatore. In quell’istante è lei, dolcissima e pudibonda, a trasformarsi, involontariamente – come una lepre – in una sapida preda, dopo il raggiro e la forzatura della situazione.
I cani convergenti verso la figura, dolcemente minacciosi, dotati della violenza di due fedeli bravacci che precludono ogni via d’uscita alla selvaggina – e in una posizione vicina alla “ferma” – ricordano altre cacce alle quali è pronto il seguace di Nembrotte, che circonda la verginella, impugnando saldamente la canna del fucile, la quale assume, risalendo accanto al bacino della ragazza, una funzione simbolicamente fallica. Le due scenette di genere riflettono i due principali schemi del sogno erotico maschile: l’incontro con una donna sconosciuta che finisce rapidamente nel rapporto sessuale e il raggiro della giovane sprovveduta che, non conoscendo ancora i piaceri del sesso, potrà essere iniziata alla vita. Certamente Pitocchetto non ha qui voluto alludere al proprio vissuto. Ma non ci può comunque sfuggire ciò che appare come una curiosa coincidenza tra i due dipinti e il suo tracciato biografico. Nell’opera “ La cuoca e il portarolo” la differenza di età e di ruolo tra i due personaggi sembra ricalcare la storia matrimoniale del Ceruti, sposatosi diciannovenne con una donna che ha superato i trent’anni. Mentre la seconda scena si presenta parallela alla vicenda amorosa vissuta dal pittore con la giovanissima Matilde De Angelis, per la quale lasciò la moglie fuggendo da Brescia a Venezia a Padova. Storia sentimentale complessa, quella del Ceruti, giacché dopo aver fatto alcuni figli con la bella Matilde, e dopo essersi trasferito con lei a Piacenza, tornerà con la moglie, forse dopo aver sperimentato il mènage a trois, nella stessa abitazione emiliana. Il ritorno “a casa” e la definitiva rottura del legame con la De Angelis è dimostrato dal testamento del pittore. Il Ceruti elegge infatti Angela Carrozza, sposata a Milano nel 1717. “come s.a donna e Padrona, ed Erede”. Egli dichiara che la moglie era da lui “divisa già da venti anni”, ciò che, a conti fatti, corrisponde al 1736, anno in cui Ceruti abbandonò Brescia con la De Angelis. Il pittore, nel documento, afferma di aver avuto dalla moglie vari figli morti in età tenera ad eccezione di una di trent’anni. Non menziona invece, perché evidentemente la De Angelis non viene indicata nel testamento, altri figli avuti dalla seconda moglie e nemmeno il figlio Carlo, forse ancora vivo in quell’anno. Forse, nel corso della fuga verso Venezia e poi verso Padova – contando sul fatto che il matrimonio con la Carrozza era avvenuto nello Stato di Milano – Ceruti sposò anche la giovane Matilde, raggirando le norme civili ed ecclesiastiche, giacché pur separato dalla prima moglie, non avrebbe potuto addivenire a un secondo matrimonio. Eppure in un documento del 1768 Matilde de Angelis risulta “moglie del quodam Giacomo Ceruti”, mentre in un’altra carta, trovata a Piacenza, la giovane donna viene definita come “socia” del pittore.
Gli studiosi hanno finora ritenuto che quel sostantivo alludesse esclusivamente a una forma di collaborazione della De Angelis nell’ambito delle attività professionali del Ceruti, ma non dobbiamo ritenere che il sostantivo – perdurante nei dialetti lombardi e, in particolar modo, in quello bresciano, nell’accezione di “sodale” – avesse originariamente il significato di “compagna, amica”. Il Ceruti ebbe da Matilde – annota Mina Gregori – due figli a Padova e una a Piacenza. Bella e commercialmente indipendente era l’amante di Giacomo. L’autonomia di Matilde è infatti indicata dalle carte Schulenburg, dove è conservata una cedola con due pagamenti distinti a Giacomo e alla “consorte”. Si potrebbe pensare che fosse sua collaboratrice in forma autonoma, ma non è da escludere che il pagamento sia da collegarsi all’attività di libraia che risulta esercitasse negli ultimi anni; e lo Schulenburg era ben fornito di libri. In ulteriori ricerche sia il Caprara che il Fiori hanno accertato, sulla base degli Stati delle anime delle parrocchie di Milano, che dal 1766 Matilde De Angelis non era più con il pittore, ma viveva sola, qualificandosi libraia, in una casa del marchese Castiglioni nella parrocchia di San Raffaele. L’anno seguente, e così nel 1768, nella stessa abitazione, viveva con la donna Domenico Speranza libraio. Convivente o garzone, dopo la morte di Matilde (1°novembre 1768 “di tisi a 49 anni” come si dice nei Registri della Sanità della Città di Milano) risulta si sia sposato. “La De Angelis – scrive Mina Gregori – doveva essere molto giovane quando si unì al Ceruti ( è probabile che il trasferimento del pittore da Brescia nel Veneto coincida con l’abbandono della moglie e con la nuova unione), intorno al 1736 (se non prima) e non dopo il maggio ’37. A quel tempo aveva diciassette-diciotto anni perché doveva essere nata nel 1718-19, secondo il conto che risulta dall’atto di morte e che concorda con stretta approssimazione con ciò che si ricava dello Stato delle anime piacentino del 1745. Il Ceruti era sensibilmente più anziano, perché doveva avere vent’anni più di lei. Il Fiori ritiene che l’Angela Carrozza che al momento della morte di Jacopo Ceruti viveva con lui fosse la legittima moglie e la sua ipotesi è confermata dai documenti. Nel 1745 il Ceruti stava a Piacenza con “Metilde moglie” di 27 anni, mentre nel 1746 nella stessa casa vivevano: Giovanni Battista Volpini di 27 anni, Jacopo Ceruti che è detto di 40 anni e Angiola Ceruti (indicata con lo stesso cognome del pittore, ciò che non era accaduto per Matilde) di 50 anni (Gli Stati delle anime del 1745 e del 1746 della Parrocchia di Sant’Andrea a Piacenza sono stati riportati dal Fiori nel 1974). Se in un primo tempo il Fiori si è chiesto se Angiola non fosse la sorella del pittore, in seguito ha pensato con ragione che fosse la moglie e sia da identificarsi con l’Angiola Carrozza che stava con lui al momento della morte. Nel 1746 non sono menzionati né Matilde, né i figli; la De Angelis e i suoi figli evidentemente non abitavano più con il Ceruti. Nell’atto di morte piacentino di Teresa Ceruti, del 19 luglio 1746, si dice solamente che era figlia di Giacomo Ceruti e della moglie Matilde senza precisare altro”. “ La Carrozza morì il 17 febbraio 1768 e si ha conferma da questo documento che era molto più anziana del Ceruti. Nell’atto di matrimonio del 15 maggio del 1717 nell’Archivio della parrocchia di San Lorenzo Maggiore a Milano non si fa cenno agli anni dei due contraenti, Giacomo Antonio Ceruti e Angela Caterina Carrozza, ma stando a un computo approssimativo la donna doveva avere poco più di trent’anni. Il Ceruti ne aveva meno di diciannove”.
Evidentemente il ménage a trois non dovette funzionare, perché la De Angelis lasciò Ceruti e Piacenza, e il pittore si riavvicinò alla prima moglie. Dopo la morte dell’artista, Angela andò ad abitare nella parrocchia di santa Tecla, a Milano, come attesta il suo atto di morte: 17 febbraio. Angela Carrozza d’anni 80 figlia q.am Gio. Batta e moglie del fu Giacomo Ceruti ricevuti li SS.mi Sacramenti di Penitenza Eucarestia Estrema Unzione e Benedizione Papale è morta e fu sepolta in Duomo con l’accompagnamento di 6 sacerdoti”.
