In questi giorni, nel Regno unito è stato portato alle luce, in un terreno agricolo, un bronzetto forse collegato a Mercurio, dio dei commerci e dei viaggi. L’opera, datata tra il I e il III secolo d.C., è probabilmente un ex voto romano, un’offerta alla divinità in cambio di protezione, fortuna o guarigione. Il reperto, accanto ad altri oggetti tra i quali un ciondolo che rappresenta il simbolo maschile – della stessa epoca -, è stato segnalato da Steve Taylor, esperto di storia antica, al Metal Detecting Finds UK & British Coins.
Gli ex voto – destinati dai privati ai santuari – o le statuette da inserire nel contesto del larario di casa, nel mondo romano erano la traduzione materiale di un patto con il divino.
Ex voto. Il devoto prometteva una statua, un oggetto o un simulacro di ciò che desiderava salvare o guarire – un arto, un occhio, un cuore, la virilità – nel caso in cui la divinità avesse esaudito la sua preghiera. Erano, in un certo senso, la contabilità sacra dell’anima. In migliaia di casi, quegli ex voto, fusi in bronzo o plasmati in terracotta, venivano lasciati nei santuari romani, in un modo analogo a quello con cui sarebbero apparsi nei santuari cristiani.. Altre statuette come questa sono state catalogate, dagli archeologi britannici, come rappresentazioni di Mercurio.

Dobbiamo chiederci se questi grandi occhi scavati che rendono popolarmente sgraziata la statuetta non fossero un errore dello scultore che ha plasmato, inizialmente, la sculturina, in argilla – per poi trarre un calco e giungere alla fusione – ma una sua volontà espressiva di facile comprensione all’epoca. Gli occhi vuoti potrebbero alludere alla cecità o a problemi gravi all’apparato della vista, come infezioni pesanti ma reversibili, per le quali si riteneva dirimente l’intervento del dio o si riferivano a colui che tutto vedeva? C’è anche un’altra possibilità. Che in quelle cavità fosse originariamente inseriti occhi realizzati con smalto, secondo una tradizione di lavorazione celtica.
Nel caso del bronzetto britannico, la fusione è semplificata, quasi artigianale, e questo lascia supporre una produzione “di tempio”: piccoli laboratori situati nei pressi dei luoghi di culto, dove l’offerta si poteva acquistare già pronta, scegliendo tra figure divine o simboli di energia e forza virile, portafortuna contro l’invidia e la sfortuna. Un’industria della devozione, dove la pietà si univa al commercio – proprio nel regno del dio Mercurio, che presiedeva tanto al denaro quanto al destino.
In un altro campo inglese è stato rinvenuto – sempre mostrato da Steve Taylor, come recente frutto delle proprie ricerche – un amuleto bronzeo allungato, dotato di un passante per essere indossato con un cordino.

Si tratta, com’è evidente, da un simbolo della virilità, parte di una vasta tradizione di talismani diffusi in tutto l’Impero, indossati sia da uomini che da donne. La presenza di un’asola bronzea – dal lato che rende evidente la natura dell’oggetto – avrebbe portato la parte superiore della scultura ad aderire alla pelle di chi la indossava, mentre dall’esterno l’oggetto sarebbe apparso come una strana creatura o come una pianta con frutto che esplodeva a partire da un seme. Un gioco o un velo? O entrambi?

Questi oggetti, pendenti leggeri e spesso di forma stilizzata, venivano portati al collo, o sui bracciali, cuciti sugli abiti o appesi alle porte delle case, con la funzione di proteggere il portatore dalle forze negative, dallo sguardo malevolo e dalle energie distruttive. Questo simbolo era inteso soprattutto come potenza, come fascinum contro il malocchio: una superstizione sopravvissuta in alcune aree, come quella italiana, in cui la sfortuna va annientata accennando a sfiorare quella parte.
L’idea alla base di questi amuleti era che la forza generativa e vitale – il principio stesso della vita e della creazione – potesse respingere le potenze maligne. Per questo motivo, il simbolo della virilità non era soltanto un emblema maschile, ma un segno universale di vigore, prosperità e fortuna, presente tanto negli ambienti militari – in cui aveva un dominio assoluto -quanto in quelli domestici. Era una formula apotropaica – dal greco apotrépein, “allontanare” – destinata a deviare le influenze avverse e a favorire la buona sorte.
Ma torniamo a Mercurio che, per i Romani, era un dio doppio: protettore dei commercianti e dei viandanti, ma anche dei confini e dei passaggi. Parlava il linguaggio del guadagno e quello dell’inganno, ed era amato dai Celti romanizzati, che vedevano in lui una divinità affine ai loro antichi dèi della natura e della fertilità. Nelle province settentrionali, il suo culto si intrecciò con le tradizioni locali: Mercurio celtico portava spesso un gallo o un serpente, simboli di rinascita e forza vitale, e veniva invocato nei mercati, nei viaggi, ma anche per la protezione della famiglia e della discendenza.
Mercurio si fece ponte tra due religioni, tra Roma e il nord, e la sua popolarità nelle province più lontane dell’Impero crebbe fino a oscurare, in certi periodi, quella di Giove stesso. È per questo che la maggior parte dei bronzetti e degli ex voto a lui dedicati si concentra oggi nei territori della Britannia, della Gallia e della Germania.
Ma perché – ci si chiede spesso – ritroviamo in Gran Bretagna vengono trovati numerosissimi reperti romani e così pochi in Italia? In Italia, di fatto, ogni ricerca è impedita, ai privati, anche sui campi arati. Muoversi con un metal detector, da noi, pur su aree agricole con stratigrafia devastata dagli aratri, è considerato un tentativo di furto ai danni dello Stato.
In Gran Bretagna, invece, la collaborazione tra cittadini e Stato è stretta, garantita da un atteggiamento di stampo liberale.
Le ricerche britanniche si configurano così come un vasto intervento, pur regolamentato. I detectoristi segnalano le scoperte. Poi lo Stato decide se acquistare o no i reperti; gli introiti vanno ai cercatori e ai proprietari dsel terreno, a prezzi di mercato.
In quei campi senza più ordine stratigrafico, gli oggetti emergono come naufraghi della storia: monete, fibule, piccoli bronzi e amuleti votivi, spesso dedicati alla prosperità, alla protezione e alla continuità della vita. Ogni reperto viene catalogato, mappato e consegnato, trasformandosi da semplice fortuna privata in documento scientifico collettivo.
Da noi, invece, una simile pratica sarebbe quasi impossibile, perché i campi italiani – anche dove i resti romani abbondano – sono coperti da normative più rigide e da un diverso rapporto con la proprietà archeologica. Di conseguenza, la quantità di reperti recuperati in Gran Bretagna supera di gran lunga quella italiana, ma non perché il suolo britannico sia più ricco: semplicemente, è più esplorato, e in modo capillare.








