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Come fu dipinta la Gioconda. Perchè quel sorriso? Leonardo voleva dipingerla mentre rideva, ma gli fu impossibile


a gioconda copertina
I risultati della scansione della Gioconda di Leonardo, al di là della scoperta di alcune pennellate che delineano una sottoveste di mussola, indossata in quell’epoca dalle partorienti o dalle puerpere, appaiono interessanti soprattutto per la delineazione delle tecniche utilizzate dal maestro. In particolare risulta degna di considerazione l’individuazione, alla base degli strati di pittura, di un apprestamento sommario del ritratto basato sull’incisione del supporto. Una sorta di mappa della fisionomia con la quale l’artista aveva ripreso, nei suoi elementi lineari fondamentali, la verità della donna che aveva di fronte.
LA RICOSTRUZIONE DI OGNI FASE DEL DIPINTO

L’immagine di Lisa catturata su un vetro
a gioconda copertina

Si può supporre che Leonardo abbia utilizzato una lente o un vetro per “catturare” perfettamente l’immagine di Lisa Gherardini. Questi strumenti, che erano stati sperimentati nella prima metà del Quattrocento dai pittori fiamminghi, costituivano un grande aiuto per riprendere perfettamente le fattezze dell’effigiato.

Il genere del ritratto è infatti molto complesso. Un minimo mutamento delle linee facciali, la riduzione o l’aumento della distanza tra gli occhi, ma soprattutto un non perfetto colloquio strutturale tra i diversi elementi della massa facciale producono sempre un mutamento della linea fisionomica tale da rendere solo parzialmente riconoscibile il volto della persona effigiata.

Il primo intervento richiesto a un ritrattista è pertanto quello relativo alla raccolta delle linee-base del volto (cfr https://stilearte.it/var/www/vhosts/stilearte.ithttpdocs/come-dipinge-un-grande-ritrattista-seguendo-le-regole-della-pittura-antica-il-video/) Ora si può ipotizzare, sulla base delle incisioni rilevate sul supporto, che la Gioconda sia stata posta di fronte al pittore e che Leonardo abbia rilevato le linee del volto e del corpo attraverso l’uso di una lente o, più semplicemente, di un vetro, collocato tra sé e la modella. Seguendo infatti con un pennello sottile, intinto in un colore scuro, la silhouette della figura – e dipingendone le linee sul vetro – era possibile ottenere un perfetto elemento di base su cui lavorare. Quella che possiamo definire una vincolante “mappa fisionomica”. (cfr: www.stilearte.it/i-segreti-del-ritratto-2-come-trasferire-perfettamente-le-linee-del-volto-sulla-tela/)
Dal vetro al foglio, poi l’incisione dell’imprimitura
A questo punto risulta assai probabile che il pittore abbia posto un foglio contro il vetro sul quale, poco prima, aveva raccolto le linee sommarie ma fondamentali del volto e del corpo della modella e abbia in quel modo trasferito sulla carta gli elementi fisionomici di monna Lisa. Il foglio poi potrebbe essere stato collocato sulla tavola lignea che, nel frattempo, era stata preparata con la stesura dell’imprimitura, una preparazione che, come dice il Vasari, è formata da gesso e da quattro o cinque mani di “dolcissima colla”. Si può pertanto ritenere – con un limitatissimo margine di dubbio, considerato il fatto che l’imprimitura presenta incisioni le quali configurano la silhouette della modella e gli elementi principali della mappa fisionomica – che Leonardo abbia appoggiato il foglio alla preparazione della tavola e che, percorrendo le linee del disegno, abbia inciso la silhouette con uno strumento appuntito, andando a segnare il supporto. In questo modo avrebbe ottenuto la base sulla quale poi lavorare con il colore.

Il rilevamento della fisionomia soprattutto attraverso strumenti di supporto dell’occhio – come pure il semplice vetro – consentivano di ottenere una somiglianza perfetta del ritratto alla persona in posa. Il nostro volto non è più quello se l’occhio è spostato di pochi millimetri o se il naso, nel disegno, è anche solo lievemente più corto. Il fine degli artisti era quello di ottenere un’immagine del ritratto che fosse, diremmo oggi, fotografica. Del resto i ritratti servivano a celebrare l’effigiato e a perpetuarne la memoria, nelle sue fattezze fisiche. Un’esigenza sentita anche dagli antichi romani, che disponevano già delle gallerie con i ritratti degli antenati.

Luce attenuata per rendere dolce il volto
Trasferito l’ingombro della testa e del volto sulla tavola, iniziava la stesura pittorica, sempre, naturalmente, con il soggetto a fronte. E’ a questo punto che la mappa fisionomica deve lievitare – attraverso il colore, l’apparato chiaroscurale e le velature – per diventare un ritratto che abbia un effetto tridimensionale.

Per garantire la dolcezza dei volti – particolare fondamentale per Leonardo che, nel suo trattato di pittura, invita i colleghi ad aver sempre un grande rispetto dei modelli – l’artista toscano fissava le sedute di posa nei giorni nuvolosi, con il fine di evitare che il soggetto presentasse ombre molto nette, le quali avrebbero reso arcignamente dura l’espressione. Per rendere ancor più soavi le fattezze dei suoi soggetti, il pittore interveniva, in fase finale, con il cosiddetto sfumato, cioè una stesura lievissima, realizzata con particelle di pigmento sospese nel medium. Un velo che assegnava all’effigiato e al paesaggio una grande morbidezza.(cfr: www.stilearte.it/leonardo-da-vinci-cose-lo-sfumato-leonardesco-e-come-si-ottiene/)
I canadesi parlano del mistero dello sfumato. Nessun segreto: i pittori lavoravano con le dita
Secondo gli studiosi canadesi, che hanno sottoposto la tavola ad accurate indagini basate su una strumentazione tecnologicamente avanzata, i segreti dello sfumato leonardesco restano tuttora inavvicinabili. “La superficie della Gioconda – hanno affermato i ricercatori – non rivela alcuna pennellata. Lo strato di pigmento è estremamente sottile ed uniforme”.

A nostro giudizio, il segreto è facilmente svelabile, poiché in pittura lo sfumato viene realizzato, una volta che i colori di base si sono asciugati, con una diluizione delle terre e degli ossidi in soluzioni piuttosto liquide. Il colore viene poi tirato con la parte laterale esterna del pollice o con il polpastrello dell’indice. E’ anche possibile utilizzare un pennello dalle setole molto morbide, come avviene – a livello di make-up – nel trucco del volto, con una velatura colorata di “terra”.

L’intervento di perfetta diffusione del pigmento può essere favorito da una preventiva stesura di vernice finale che, una volta essiccata, offre una pellicola impermeabile sulla quale è possibile stendere con maggior facilità questo strato di “pigmento sottile e uniforme”.
Lo sfumato era utilizzato da Leonardo anche per la cosiddetta “prospettiva aerea”
Partendo dalla prospettiva lineare, che resta l’elemento fondamentale per l’individuazione delle linee di fuga in grado di conferire al dipinto la verità simulata della profondità – rispetto alla quale, nel Quattrocento, avevano lavorato intensamente artisti e architetti come Brunelleschi, Masaccio, Leon Battista Alberti e Piero della Francesca -, Leonardo giunse a individuare un perfezionamento degli assetti geometrici, operando attraverso il cosiddetto sfumato e il mutamento dei colori alla distanza. (cfr: www.stilearte.it/leonardo-da-vinci-cose-la-prospettiva-aerea-e-come-si-ottiene/)
Già – prima di lui – alcuni artisti, soprattutto fiamminghi, avevano lavorato in direzione di una riproduzione realistica dei paesaggi lontani. Ma in Leonardo questa consapevolezza diventa regola.
Il pittore toscano aveva osservato che un oggetto, in distanza, non solo appare più piccolo, collocandosi sulle linee di fuga, ma muta il proprio colore, mentre le linee del suo disegno si fanno meno nette. Una casa lontana, all’orizzonte, non ha il colore acceso che presenta nel caso in cui venga vista da vicino. Sia l’attenuazione del colore che l’effetto di sgranamento sono dovuti alla presenza di umidità nell’aria, che vela gli oggetti distanti. Maggiore è la distanza – che accumula consistenti quantità di umidità sospesa -, maggiore è la velatura tesa in ampio sfumato. Nel caso poi di dipinti nei quali il soggetto sia colto in primo piano sul fondo di un ampio paesaggio – come nel caso della Gioconda -, assistiamo a un ulteriore potenziamento dello sfumato sul paesaggio, poiché l’artista tiene evidentemente conto del funzionamento dell’occhio umano, qui chiamato a mettere a fuoco principalmente la persona effigiata piuttosto che la quinta naturale retrostante.
Monti azzurrini e sfumati danno una grande profondità
Nell’ambito della cosiddetta “prospettiva aerea” – un assetto pittorico che rafforzava i termini dell’approccio illusionistico al dipinto -, Leonardo teneva conto del mutamento cromatico dei monti, alla distanza. Se infatti una montagna vicina è essenzialmente composta da un insieme di verdi, di rosso-marroni e di gialli, a media distanza essa inizia a coprirsi di un lieve velo azzurrino, che attenua, fino alla cancellazione, le unità cromatiche sottostanti. La velatura diffusa, con la quale si ottiene il cosiddetto sfumato, è adatta alla rappresentazione delle montagne più distanti dal punto di osservazione. Ecco la scelta di un nebuloso azzurrino, nel caso in cui il dipinto voglia rappresentare una giornata assolata o un grigio-blu sfumato, nel caso in cui il tempo sia più cupo.
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Le indagini archivistiche svolte da Pallanti, messe in linea con studi precedenti dedicati al milieau leonardesco e vasariano, hanno condotto all’acquisizione di informazioni di elevato interesse non solo a conferma delle strettissime relazioni tra Leonardo e la famiglia Del Giocondo, ma a sostegno, grazie a numerosi indizi convergenti, della testimonianza di Vasari contenuta nelle “Vite” E’ questo il cardine dell’intera vicenda. Se Vasari dicesse il vero – e Pallanti dimostra che l’aretino, per le strette frequentazioni con i parenti di Lisa Gherardini, disponeva di informazioni di prima mano – le principali risposte relative all’identità della donna ritratta nella tavola conservata a Parigi sarebbero collocate proprio in quel testo, a lungo letto e sarchiato. La verità, insomma, sarebbe quella che è stata, per lungo tempo, sotto gli occhi di tutti: il quadro del Louvre è l’effigie di Monna Lisa, moglie di Francesco del Giocondo. Del resto Vasari era informatissimo sulle vicende biografiche di Lisa Gherardini, che era praticamente una sua vicina di casa, a Firenze, come confinanti e conoscenti erano decine di parenti della donna. Pallanti riferisce che all’epoca in cui lo storico aretino iniziò la raccolta di materiale, “Lisa avrebbe avuto poco più di sessant’anni; forse era ancora viva e nessuno, meglio di lei, avrebbe potuto raccontare la storia del ritratto. Di sicuro erano vivi i figli e i fratelli di lei, che abitavano ancora in via della Stufa, e i numerosi parenti di Francesco. Lisa aveva inoltre le sorelle e una figlia in un due noti conventi fiorentini. (…) Dalla parte di Francesco, i testimoni potevano esse tanti: nel corso del tempo la famiglia si era ramificata e ai primi del Cinquecento era costituita da un gran numero di discendenti. Se Francesco commissionò il ritratto a Leonardo, è difficile che non ne abbia parlato con i fratelli, gli zii e i cugini con cui si vedeva tutti i giorni in Por Santa Maria. E se poi le botteghe fecero da cassa di risonanza, cosa del tutto normale, il fatto fu conosciuto anche al di fuori della cerchia familiare. Insomma, se Lisa fece da modella, si può supporre che furono in diversi a saperlo e ciò che scrisse Vasari prima del 1550 si fondò probabilmente sulle loro testimonianze. Vasari conosceva molto bene la famiglia del Giocondo. (…)” Quindi cruciale risulta la considerazione presentata dal ricercatore fiorentino relativamente alla mancanza totale di rettifiche del suo racconto, pur a fronte di un ambiente altamente informato sulle vicende di Leonardo e di monna Lisa, nella seconda edizione delle Vite. Altri particolari, all’interno dei diversi capitoli, vennero mutati a causa dell’intensa circolazione del volumi che aveva consentito una verifica diretta della stesura vasariana da parte dei testimoni o dei protagonisti degli eventi narrati; ma il brano dedicato Monna Lisa non fu assolutamente modificato e venne riproposto integralmente in quella successiva del 1568. “Negli anni che separarono le due edizioni – annota Pallanti – il Vasari ebbe dunque modo di verificare il contenuto originario delle Vite, tanto più che erano ancora vivi numerosi parenti di Francesco e, per lo meno, tre suoi figli”.

Leonardo, attorno
al quadro, penò
quattro anni
senza esito
Rileggiamo, di fronte a questo marcatissimo accreditamento della fonte, i fatidici paragrafi di Vasari, prestando attenzione ai passi cruciali che segnaleremo in neretto: “Prese Lionardo a fare per Francesco del Giocondo il ritratto di Mona Lisa sua moglie; e quattro anni penatovi lo lasciò imperfetto, la quale opera oggi è appresso il Re Francesco di Francia in Fontanableo; nella qual testa chi voleva vedere quanto l’arte potesse imitar la natura, agevolmente si poteva comprendere, perché quivi erano contrafatte tutte le minuzie che si possono con sottigliezza dipignere. Avvenga che gli occhi avevano que’ lustri e quelle acquitrine che di continuo si veggono nel vivo, et intorno a essi erano tutti que’ rossigni lividi et i peli, che non senza grandissima sottigliezza si posson fare. Le ciglia per avervi fatto il modo del nascere i peli nella carne, dove piú folti e dove piú radi, e girare secondo i pori della carne, non potevano essere piú naturali. Il naso, con tutte quelle belle aperture rossette e tenere, si vedeva essere vivo. La bocca, con quella sua sfenditura con le sue fini unite dal rosso della bocca con la incarnazione del viso, che non colori ma carne pareva veramente. Nella fontanella della gola, chi intentissimamente la guardava, vedeva battere i polsi: e nel vero si può dire che questa fussi dipinta d’una maniera da far tremare e temere ogni gagliardo artefice e sia qual si vuole. Usòvi ancora questa arte, che essendo Mona Lisa bellissima, teneva mentre che la ritraeva, chi sonasse o cantasse, e di continuo buffoni che la facessino stare allegra, per levar via quel malinconico che suol dare spesso la pittura a i ritratti che si fanno. Et in questo di Lionardo vi era un ghigno tanto piacevole che era cosa piú divina che umana a vederlo, et era tenuta cosa maravigliosa, per non essere il vivo altrimenti”.
Da Vasari, pertanto, apprendiamo o possiamo arguire che: 1) il quadro non fu finito pur dopo un travagliatissimo lavoro durato quattro anni 2) l’opera non venne consegnata all’effigiata perché, nonostante fosse mirabile sotto il profilo tecnico, non soddisfaceva l’autore (e pertanto venne rimaneggiata, a più riprese, dall’artista); 3) la tavola imboccò la via della Francia ( e, questo lo sappiamo noi, ciò avvenne grazie alle acquisizioni regali nell’ambito della raccolta del Salaì, allievo di Leonardo) giacché entrò a fare parte della collezione del“Re Francesco a Fontanableo”; 4) l’effigiata aveva “ghigno tanto piacevole che era cosa divina che umana a vederlo”, atteggiamento del volto che sembra attagliarsi perfettamente a ciò che, secondo il luogo comune, è l’ “enigmatico sorriso della Gioconda”, suscitato, secondo ciò che dice Vasari, dalle piacevoli “colonne sonore” utilizzate dall’artista durante le sedute di posa, affinché il volto di Monna Lisa si accendesse di gioiosa serenità.
La sfida del sorriso:
facile nei quadri sacri,
impervia
nei ritratti
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La testimonianza relativa ai piccoli spettacoli allestiti per la Gioconda, per quanto sia stata forse resa da Vasari in una dimensione vagamente iperbolica, rientrerebbe nell’ambito della filosofia del rispetto dell’umana figura, teorizzata nel trattato leonardesco di pittura. Leonardo evitò sempre, infatti, contrasti chiaroscurali violenti, al fine di ridurre le ombre taglienti che conferiscono ai volti un’espressione arcigna. Non stupirebbe allora che l’artista volesse riprodurre, nell’ambito della ricerca di una verità aggraziata del volto, anche con l’ausilio di un supporto musicale, una delle espressioni più difficili da ottenere in un ritratto, cioè il sorriso, poiché se esso può parzialmente sconvolgere, senza gravi conseguenze, i lineamenti di un modello o di una modella di un quadro sacro o mitologico – al quale non si chiede assolutamente la riconoscibilità dell’effigiato, ma l’individuazione del ruolo svolto dalla figura nella storia – nei ritratti non deve essere causa della minima perdita di fedeltà ai lineamenti originari.

Il senso di sconfitta di Leonardo – “e quattro anni penatovi lo lasciò imperfetto” – fu, a mio giudizio, originato proprio dalla difficoltà di trovare un punto d’accordo tra la verità del sorriso e il mantenimento della perfetta sovrapponibilità della linee fisionomiche, poiché nel ritratto anche la minima incongruenza rispetto al modello provoca una reazione a catena dei volumi, producendo un forte senso di alterità del soggetto.
Dopo il 1500
quelle labbra tese
diventano cifra
della sua arte

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“In effetti ritengo che tutta la partita della Gioconda si giochi, sotto il profilo pittorico, attorno a quel sorriso che la voce popolare avrebbe poi giustamente indicato come il “mistero di Monna Lisa”. – ha detto il critico Maurizio Bernardelli Curuz – Vorrei, a questo proposito, sottolineare il fatto che, dopo il 1500, la rappresentazione del sorriso diventa per Leonardo un elemento di ricerca espressiva fondamentale, un’autentica sfida magistralmente vinta nell’ambito della pittura sacra, ma non ancora portata a compimento nel ritratto. Lo sfumato dei volti – un’autentica cipria luminosa che l’artista stende sui lineamenti dei personaggi effigiati per ammorbidirne fattezze ed espressioni – viene infatti rafforzato dall’espressiva effusione del volto nelle figure di Sant’Anna e della Madonna, nel San Giovanni Battista del Louvre, nella Leda, con uno stacco decisivo rispetto ai ritratti o ai volti realizzati prima del 1500, quando si assiste a una netta preponderanza di una nobile e seria espressione, per quanto orientata, come avviene nella Dama con l’ermellino, a una certa mobilità espressiva, segno dell’azione della psiche sul soma.
E’ possibile quindi che l’insoddisfazione di Leonardo discendesse proprio dal sorriso raggelato della Gioconda della Gioconda, da quell’atteggiamento espressivamente incompiuto del volto. Forse Leonardo puntava davvero a far lievitare la solarità dell’espressione di gioia all’interno del genere più tirannicamente preciso – il ritratto – ma venne ripagato, al termine della stesura dell’opera, da un quadro che risultava il compromesso tra il più alto e pittoricamente complesso “moto dell’anima” e i lineamenti originari dell’effigiata. Da qui discende la linea rialzata della bocca, nell’emisfero sinistro della massa facciale della Gioconda, che è come raggelata, bloccata affinché la compressione della massa facciale non muti altre porzioni del volto, rendendo irriconoscibile il soggetto. Teniamo conto che per quanto Leonardo – come abbiamo rilevato in precedenza – si fosse orientato, dopo il 1500, alla rappresentazione di effigi dolcemente dominate dal sorriso esse – a quanto finora ci risulta – appartengono in via esclusiva a personaggi biblici o mitologici nei quali è possibile – se non auspicabile, da parte di un pittore dell’epoca di Leonardo – un certo allontanamento dalla verità fisionomica del modello. E’ solo con la Gioconda che l’artista prova ad accendere la miccia esplosiva del sorriso. Ma il congegno, in quel caso, non funziona”.
Leonardo gareggiò con i pittori
della Grecia
e dell’antica Roma
per rappresentare i sentimenti
La rappresentazione artistica del carattere e delle inclinazioni dell’anima erano considerate fondamentali dagli antichi Romani. Un personaggio, come accade nella statuaria, doveva immediatamente rivelare il proprio carattere al lospettatore. Ma per gli antichi era soprattutto una questione legata alle grandi definizioni della personalità: coraggioso, eroico, pavido, mite, perspicace, nobile, caritatevole ecc. Si trattava di inserire il ritratto – a noi restano, purtroppo, quasi totlmente ritratti scultorei, se escludiamo pochi volti autentici dipinti e i dipinti da cavalletto, così intensi e vibratili della necropoli di Al Fayyum – in una cornice di definizione. Anche i macro sentimenti – la paura, l’orrore, la rabbia – dovevano apparire nei gruppi scultorei, come avvenne, perfettamente, nel modello greco del Laocoonte. La necessità, indicata da Leon Battista Alberti, era quella di avvertire i pittori di porsi, anche in questo campo, al livello degli antichi, delineando nei volti di personaggi mitici o degli uomini contemporanei, i moti dell’anima, secondo un concetto ripreso da Vitruvio. I moti non sono soltanto i tratti fondamentali di un carattere, ma le risposte espressive del corpo all’attività della psiche. Con la locuzione “moti dell’anima” Leonardo intendeva ciò che noi chiamiamo – con un sostantivo dotato di minor incisività – espressioni, cioè la trasposizione, sul soma, dei pensieri e dei sentimenti, nonchè delle inclinazioni psicologiche e caratteriali del soggetto (fisiognomica). Due pittori, in quell’epoca, andarono oltre le indicazioni degli antichi, cercando di cogliere, tra i moti dell’anima,anche dettagli all’apparenza trascurabili, quelli più sottili, legati alla psicologia o alla psicologia del profondo. Furono Antonello da Messina – che viene poco citato in questo ambito, ma fu un pittore di introspettive finissime – e Leonardo da Vinci. Ecco, allora, nascere la donna e l’uomo della modernità, che non sono più classificabili, soltanto, nelle macro-categorie dei caratteri psicologici maggiori, ma vengono letti, uno ad uno, come persone uniche. Una rivoluzione davvero straordinaria, che sta alla base della modernità e alla progressiva valorizzazione dell’individuo che diviene, sacralmente, persona: simile agli altri, ma irripetibile.