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Con quali materiali dipingevano gli antichi Romani? Il caso della tela maledetta di Nerone


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a nerone

Il livello raggiunto dalla civiltà romana, al di là dei disvalori della violenza e della sopraffazione – che parevano indispensabili per mantenere unito un impero mostruosamente ampio – fu notevole. E, per quanto in parte idealizzati, forme e contenuti di quella civiltà furono oggetto dell’ammirazione degli intellettuali e degli artisti italiani del Quattrocento e del Cinquecento che trovarono nei libri e nei materiali artistici di quel passato lontano la testimonianza che la rappresentazione lineare della storia – come un progresso costante, nel passaggio delle generazioni – è, a volte, illusoria. Alcuni insegnamenti, nel campo artistico, furono tratti da Vitruvio e da Plinio, che morì a Pompei – 79 d.C. – dopo aver raggiunto un’amica ed aver cercato di salvarla dal disastro del Vesuvio. Plinio, al di là del suo enciclopedico viaggio nella storia naturale, offre un interessante lavoro sulle pratiche artistiche nel mondo classico, dalle origini greche alla prassi romana a sé contemporanea. Dal suo lavoro emerge che:
I quadri da cavalletto erano realizzati su tavole, ma che già ai quei tempi, probabilmente per le opere di maggiori dimensioni, si ricorreva alla tela
I materiali erano costituiti soprattutto da metalli, ossidi – di ferro, di piombo, di rame eccetera – minerali e, in misura minore, elementi organici. Per quanto concerne i leganti non è escluso che, già a quell’epoca, accanto all’acqua – tempera – o alla cera liquefatta encausto – e ai diluenti tratti dalle conifere, si facesse uso, per ottenere i massimi effetti realistici, dell’olio. La nascita della pittura ad olio si ascrive più di 1000 anni dopo ai fiamminghi, ma fu probabilmente solo una riscoperta, per quanto fondamentale.
L’encausto tout court non era praticato normalmente nelle abitazioni – dove si ricorreva, probabilmente, alla pittura a secco, poi finita con cera o all’affresco – ma sulle barche e sulle navi, dove resisteva per lungo tempo
Esisteva la vernice finale che aveva lo scopo di attenuare i colori troppo accesi – non molto amati, sotto il profilo artistico, da Plinio, e, presumiamo, dagli altri Romani – e di aumentare il realismo dell’opera attraverso le trasparenze. Per questo si usava l’atramentum, un composto basato buona parte sui bitumi (cfr il nostro link http://www.stilearte.it/atramentun2/)


Gli artisti ponevano spesso il nome sulle proprie opere e questo non solo per orgoglio personale – che era molto acuto, secondo i racconti di Plinio – ma anche per una forma pubblicitaria.
Il collezionismo era spesso compulsivo e folle. Oggetto delle raccolte erano soprattutto i pittori greci dell’antichità. Oltre a collezionare opere antiche di grande qualità – Plinio sottolinea una decadenza della pittura a sè contemporanea – i politici amavano farsi ritrarre e offrire grandi e sorprendenti immagini del proprio volto e del proprio corpo. “Nerone – scrive – aveva commissionato il suo ritratto in dimensioni colossali su una tela di 120 piedi, fatto totalmente inaudito fino a quel tempo. Questa pittura ultimata e poi esposta nei giardini Maiani fu colpita dal fulmine e arse con la parte migliore dello stesso spazio verde”- La sfida di Nerone al cielo fu perduta.
 
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PLINIO IL VECCHIO 
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