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Cosme’ Tura, il pittore alchimista


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CosmeStephen J. Campbell – qui intervistato da “Stile Arte” – è tra i maggiori studiosi al mondo di Cosmè Tura. Ha curato la mostra “Cosmè Tura, painting and design in Renaissance Ferrara”.

Cosmè_Tura_029Cosmé Tura è un pittore straordinario poiché sviluppa un linguaggio unico. Si forma a Padova, dove entra in contatto con il realismo umanistico di Donatello, ma il ritorno a Ferrara, sua città d’origine, è contrassegnato da un’interpretazione particolarissima della pittura moderna. Nascono le figure allucinate e alchemiche. Da dove giunge questa carica eversiva, questo iperrealismo simbolista e metafisico?
Più che di aspetto simbolico e metafisico, si può parlare, per l’arte di Tura, di linguaggio unico, sì, ma non ermetico e neppure mistico, come molti hanno sempre pensato; piuttosto, oserei definire il suo stile “astrologico”. Per comprendere fino in fondo la pittura fantasiosa e ossessiva di Tura, non si può prescindere dalla sua terra d’origine: Ferrara. La Ferrara degli Estensi non era, di certo, la Firenze dei Medici. Cosmè Tura si formò presso le botteghe che cominciavano a recepire il nascente umanesimo, mescolato, però, alla tradizione locale, conformata sugli esempi di artisti già conosciuti e apprezzati, i cui dipinti circolavano alla corte cosmopolita della città; sto parlando di Pisanello, di Angelo Maccagnino, di Michele Pannonio, di Jacopo Bellini, di Andrea Mantegna, di Rogier van der Weyden e di Piero della Francesca. Tra il 1441 e il 1450, durante il breve dominio del duca Lionello d’Este, principe umanista educato da Guarino, collezionista e cultore d’arte, Ferrara divenne un raffinato centro di cultura protorinascimentale. Con il suo successore, Borso, all’arte venne affidata, invece, una concezione politica, vedendo in essa uno strumento per acquistare prestigio; furono la grave crisi economica, aggravata dalla guerra con Venezia nel 1482, la fervente religiosità del nuovo duca, Ercole I d’Este, e la pacifica ondata savonaroliana, a fare da sfondo alla nascita di una nuova scuola ferrarese, non più così eterodossa come in precedenza. Una scuola che ebbe come rappresentante eccelso proprio il Tura e le figure allucinate che animano i suoi dipinti. E’ in questo contesto che vanno analizzate le opere dell’artista che lei definisce “eversivo”. Ecco, il mio discorso vuole sottolineare come l’ambiente ferrarese fosse, già di suo, eversivo e stravagante, originale e unico rispetto agli altri centri di cultura: l’unicità del linguaggio di Tura è lo specchio dell’unicità della corte degli Estensi rispetto alle corti che dominavano in altre città. Certo, i suoi viaggi, a Padova prima e a Venezia poi, contribuirono a orientare il pittore verso uno stile nuovo, che sintetizza la maniera gotica e gli apporti padovani; uno stile tormentato la cui tensione espressiva si esplica in forme esasperatamente dure e in uno stridente cromatismo. Si può dire anche che grande influenza sulla cultura figurativa dell’artista ebbe il classicismo elaborato dal Mantegna e, prima ancora, il gusto archeologico dello Squarcione: ma decisive furono la lezione delle limpide geometrie di Piero della Francesca e la tensione espressiva di Donatello.


Quale fu il rapporto con Mantegna? I festoni che Cosmè Tura colloca spesso nella parte superiore del dipinto, nonché una certa monumentalità dei personaggi rappresentati, lasciano intendere un contatto tra i due artisti.
Non esistono documenti che possano chiarire il legame che intercorse tra Tura e il Mantegna, anche se è certo che le opere di quest’ultimo erano largamente conosciute e apprezzate nella Ferrara del Quattrocento: insomma, egli era già famoso. Bisogna rammentare, inoltre, che il Mantegna lavorò alla decorazione dello studiolo di Isabella d’Este a Castel San Giorgio a Mantova. Isabella, che giunse in questa città per andare in sposa a Francesco Gonzaga, era la figlia di Ercole I d’Este, duca di Ferrara e committente del Tura. Dopo questa ricostruzione storica e cronologica, è ovvio il legame stilistico che unisce i due artisti, come si può notare dall’analisi approfondita della “Madonna in trono con angeli musicanti”, tavola centrale di un polittico eseguito nel 1474, e meglio conosciuta con il nome di “Pala Roverella”; la Vergine assisa in trono, posta al vertice di una scalinata piramidale, riprende chiaramente l’invenzione spaziale, la costruzione prospettica dal basso e la monumentalità della pala di San Zeno del Mantegna. Per quanto riguarda, invece, i festoni, elemento tipico di molte opere del Tura, qui, a mio avviso, è più facile riconoscere l’influenza del linguaggio protoaccademico della scuola di Squarcione. L’ambiente padovano, in cui dominavano aristotelismo e dogmi eterodossi ed eretici, sviluppa una cultura figurativa di gusto espressionista ma nutrito di archeologia, in cui le forzature espressive, le forme taglienti e spezzate evidenziano la propensione al patetico, ai volti dolorosi e ai gesti violenti. Il desolato panorama di rocce stratificate alla padovana è un elemento costante di molte opere del ferrarese. L’incisività della linea del Tura sembra riportare anche a Marco Zoppo e alla sua “Madonna del latte”, nella quale i putti reggono un festone di foglie e frutti che ricorda da vicino i festoni della “Pala Roverella” o de “La Musa” della National Gallery a Londra. Anche nelle tele per le ante del nuovo organo del Duomo (Museo del Duomo di Ferrara), il tema del “San Giorgio e il drago” è trattato dal ferrarese in modo medievale, alla maniera dello Squarcione, mentre, all’interno delle ante, si pone in netta contrapposizione una “Annunciazione” alla maniera del Mantegna.
Mantova è l’altra città padana che si fa interprete personale del Rinascimento. A Ferrara, come a Mantova, la corte è dominata da ricerche erudite, tra le quali lo studio dell’ebraico e dell’alchimia. Quanto questa atmosfera, proiettata in direzione del magico, incise sui quadri di Tura?


A mio avviso è esagerato parlare di magia. Non dobbiamo pensare che lo studio di alchimia e astrologia, tipico dell’ambiente di corte in Ferrara, fosse così elitario e inaccessibile. E’ bene tenere presente che la corte degli Estensi attribuiva un grande valore alla scrittura, al linguaggio, agli studi eruditi; l’astrologia, ad esempio, era lingua comune a Ferrara. La coscienza di dare vita ad una forte identità culturale portò i duchi della città alla creazione di un proprio dialetto, diverso da quello di altre regioni italiane, anzi una vera e propria lingua, scritta e non solo parlata. La tendenza degli Estensi ad accogliere e “coccolare” i più svariati uomini di cultura, l’amore per la pittura, per i codici miniati, per i grandi arazzi intessuti, per la ricchezza e per tutto ciò che potesse dare lustro alla corte, contribuì a creare, a Ferrara, un ambiente in grado di assimilare, rielaborare e poi diffondere le varie istanze della cultura, anche quegli aspetti da noi, oggi, considerati stravaganti e “magici”. Si dice spesso che Tura nacque e crebbe in questo ambiente, che fu prima di tutto un artista cortigiano. In fin dei conti, però, poche sono le opere che testimoniano tale sua attività: io direi “La Musa” di Londra, “Primavera” (o “Erato”), conservata oggi al Poldi Pezzoli di Milano e il pannello di destra della “Pala Roverella” con Niccolò Roverella, san Paolo e san Maurelio, alla Galleria Colonna di Roma. Gli altri lavori di Tura sono eseguiti per clienti diversi, e – tanti – per la Chiesa. La divisione politica e i conflitti giurisdizionali che dominavano i difficili rapporti tra Ferrara e l’istituzione ecclesiastica possono offrire una interessante chiave di lettura per i differenti approcci stilistici dell’artista ai temi di volta in volta affrontati. Così, la cifra calligrafica (che ricorda la scrittura degli scribi e riporta, dunque, agli studi svolti a corte) della “Madonna annunziata” dell’Organo del Duomo si traduce nel particolarissimo stile pietroso e metallico del “San Gerolamo penitente” (alla National Gallery di Londra) e del “Sant’Antonio da Padova” (alla Galleria Estense di Modena). Bisogna tenere anche presente che Tura fu un artista estremamente eclettico, impiegato per svariate attività; non dipingeva solo tavole sacre e profane, affreschi, ritratti (si ricordi, tra tutti, quello di Eleonora d’Aragona, duchessa di Ferrara), ma preparava modelli per arazzi, letti, coperte da cavallo, vasi; decorava bardature, forniva disegni araldici, allestiva apparati trionfali. Di volta in volta era artista di corte, pittore sacro, artigiano, fabbro, decoratore e persino miniaturista: Taddeo Crivelli, nella sua “Bibbia di Borso d’Este” (alla Biblioteca universitaria estense di Modena) riprende, nelle personificazioni femminili, il volto e le sembianze della “Musa” del Tura.
Un altro elemento importante dei quadri del Ferrarese – e della pittura che si sviluppa in quella città – è la luce. La luce dei Ferraresi è unica, come i colori.
Tura è sicuramente all’avanguardia nella resa luministica della pittura ad olio, è un virtuoso della trasparenza e della lucidità di oggetti in metallo e di armature, ma anche abile creatore di una luce che intaglia le forme umane quasi fossero pietra, definendo complessi panneggi dalla consistenza scultorea. Come si può ben notare nella “Pietà” del Museo Correr di Venezia, in cui le forme irregolari, le superfici aspramente scheggiate concorrono ad un effetto intensamente drammatico, sottolineato dalla purezza cristallina del paesaggio e dalla lucentezza preziosa dei colori; il corpo deforme di Gesù sembra fatto della stessa materia delle rocce che si stratificano aride sullo sfondo. La luce gioca anche coi panneggi della stola di “San Gerolamo” e, nell’incarnato, scava l’addome, le anche e la gabbia toracica, fino a trasfigurare il santo e ad assimilarlo agli sfondi fantastici, geologicamente arbitrari ma poeticamente ineccepibili nella fitta trama di luci argentee che li modellano. Alla maniera dei Fiamminghi, la luce definisce la lucida e metallica armatura del “San Giorgio” del Museo dell’Arte di San Diego, mentre diventa più leziosa e ridondante negli accesi cromatismi de “La Musa” di Londra, nella quale si evidenziano la vena decorativa, il gusto per il prezioso e la resa tattile dei materiali, tipica del Tura. La sua complessa ricerca strutturale e cromatica raggiunge l’acme nella “Madonna in trono con angeli musicanti” del Polittico Roverella, in cui tutta la composizione si regge sugli astratti accordi dei verdi e dei rosa, mentre la “Pietà” nella lunetta superiore della Pala si distingue per un acuto contrasto cromatico, che conferisce alla scena un più evidente accento drammatico.
Quali pittori si formarono a Ferrara seguendo l’esempio di Tura?
E’ chiara l’influenza che la pittura di Cosmé Tura ebbe sulla produzione giovanile di Domenico Costa, come risulta dall’analisi del suo “San Sebastiano”. Anche Ercole de’ Roberti subì il fascino delle figure drammatiche e pietrose del ferrarese, come nella “Pietà” conservata a Palazzo Venezia a Roma. Collega di Tura fu Angelo Maccagnino da Siena (imitatore dell’arte fiamminga di Rogier van der Weyden), col quale lavorò allo Studiolo di Belfiore; Francesco del Cossa fu suo collaboratore nella decorazione del Palazzo Schifanoia, per Borso d’Este. Qui, insieme ad altri artisti anche anonimi, il Cossa realizzò un grandioso ciclo di affreschi, di tema astrologico, dedicato ai Mesi, ai Segni zodiacali e alle Divinità pagane. Nel “Marzo” egli copia pedissequamente il “San Giorgio” di Tura, eseguito l’anno precedente e, negli “Dei pagani”, è evidente la lezione stilistica del maestro di Ferrara: basti osservare le pesanti palpebre, le eleganti acconciature e le grandi bocche, tratti fisionomici distintivi della pittura di Tura. Non vanno dimenticati gli apporti che questi diede anche alle arti minori: le miniature di Taddeo Crivelli riprendono, nelle immagini femminili, i tratti tipici dello stile tagliente e dell’acceso cromatismo di Cosmè, così come i codici di Girardo da Vicenza e le carte del “Maestro dei tarocchi” di Mantegna. Le figure che popolano le opere degli artisti che decorarono il Palazzo Schifanoia (soprattutto il “Maestro di Settembre”) e lo studiolo di Ercole I d’Este testimoniano che tanti furono, se non propriamente discepoli, almeno “seguaci” del Tura.
Il manierismo, nel Cinquecento maturo, tornerà a farsi interprete di una visione interrogativa e magica della realtà. Quanto in questo sviluppo si deve a Tura e alla sua pittura collocata tra fisica e metafisica?
Molto, moltissimo. La sua particolarissima interpretazione della realtà, la sua costruzione prospettica volutamente artificiale, utilizzata intenzionalmente per creare una netta distanza dalla verosimiglianza, i suoi paesaggi lunari e la sua personale ricostruzione del mondo visuale fanno della sua arte non una magia ma, piuttosto, una poesia. Nel mio studio – confluito nel catalogo edito da Electa e pubblicato congiuntamente all’esposizione di Boston, con la preziosa collaborazione di Enrico Peverada e Adriano Franceschini – ho più volte voluto sottolineare come Cosmé Tura fosse un poeta dell’immagine, più vicino ad un Boiardo che a qualsiasi pittore del suo tempo. Con la sua luce, i suoi colori, i paesaggi fantastici e le prospettive improbabili, le sue figure alchemiche, fatte di pietra e di metallo più che di carne, Tura è riuscito a conferire alla cultura figurativa una spinta in senso espressionista, unica negli anni a cavallo tra Quattrocento e Cinquecento. La sua poesia a volte cortese e fantastica, altre devozionale e ascetica, fa comparire in ogni sguardo, in ogni smorfia della bocca, in ogni tagliente fisionomia, la traccia della mano e, insieme, dell’individualità dell’artista: una presenza che è essa stessa stata dipinta come fosse l’agente della scrittura.