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CRIPTICO TRIO




Attorno al 1510, vede la luce uno dei capolavori della pittura di quel grande secolo, il cosiddetto Triplo ritratto. Il quadro appartiene alle collezioni del Detroit Institute of Arts. Si tratta di un’opera che emana un alone di mistero ed erotismo, di indubbia fertilità emotiva e di alchimia, anche nei corrispettivi concetti psicologici e sociali che vi sottendono, seppure in una non perfetta crasi nei procedimenti di creazione e stratificazione.
Inizialmente lo si era ritenuto un pastiche, nato per soddisfare le esigenze collezionistiche del Seicento; in realtà una scritta sul retro, coperta dalla tela di rifodero, quindi non più visibile, diceva: Frà Bastian del Piombo-Giorzon-Titian. I dubbi, numerosi e su più fronti, cominciarono a sorgere non solo per tale scritta, non coeva, ma anche perché Sebastiano Luciani divenne “del Piombo” solo nel 1531, a seguito dell’ambita sinecura di piombatore offertagli da Clemente VII. La data evidentemente e comunque è in contrasto con lo stile del quadro, che risale ad almeno vent’anni prima, assumendo quindi il 1531 come terminus post quem. Inoltre diversi storici, nei secoli, hanno nutrito dubbi sulla effettiva paternità dell’opera. Per di più, il fatto che esistano una decina di copie ulteriori fa presagire che il successo, a noi immediatamente chiaro, dato dalla cripticità del dipinto, fosse ampiamente riconosciuto già nel Cinquecento.
 


Fin dalla prima attribuzione nota, nello inventario di Guglielmo d’Orange ai primi del Settecento, si dice che il quadro è di Tiziano, Giorgione e Palma il Vecchio.
Rylands non lo associa nella sua monografia a Palma, mentre Furlan lo attribuisce a Pordenone. Berenson, poi, ne vede la mano di Tiziano con aiuti. Certo è che risulta difficile pensare a come tre maestri di tale portata avessero deciso di passarsi in modo così amichevole una tela, senza accavallare i singoli slanci egoici tipici di ciascun grande artista. La materia strappata, sottilmente forte ed ampia, che esce e colonizza il fruitore, espressa dal ricamo della manica bianca a sbuffo della donna a sinistra la quale poggia la sua mano destra sul petto dell’altra donna, forse toccandola in modo sensuale, forse indicando il cuore per alludere ad un problema sentimentale, pare essere di Tiziano. Mentre il mistero emanato dalla figura al centro, un uomo più maturo, calato nella semioscurità, così come ombroso è il suo pensiero e, di conseguenza, il suo sguardo, riecheggia l’agonia psicologica, caratteristica delle opere e dei personaggi di Giorgione.
Rimane la donna a destra. Dalla carnagione chiara, liscia e fusa come le pennellate di Sebastiano. Più stoica e geometrica, possente e stabile come il Polifemo nell’affresco di Villa Farnese, la tenuta romana del banchiere senese Agostino Chigi, che scelse il Luciani quale prediletto artista, assieme a Sodoma, Peruzzi e Raffaello. E ne divenne mecenate e protettore. Lo sguardo fisso e austero, quasi di rimprovero, pare non assecondare le occhiate morbide, dolci dei piccoli occhi neri della donna di Vecellio.
Inoltre, una certa mancanza di coordinamento compositivo fa pensare che ciascuna figura sia stata concepita dai tre autori in modo separato e autonomo; prima Giorgione, poi Sebastiano e infine Tiziano, a cui il compito di raccordo, forse non del tutto riuscito, dato che gli occhi della donna del Luciani risultano tanto più alti rispetto a quelli della donna tizianesca che li osserva.
E qui si generano le contraddizioni che solo un quadro del genere può sviluppare. Sono le due donne amanti e l’uomo le osserva intrigato? Oppure la donna di destra ama ed è stata tradita dall’uomo che, con un prepotente senso di colpa, si cela (e quindi la donna di sinistra la scaccia con gesto di sfida)? Qualcuno fa da mezzana per un amore sul nascere?
Chi è l’amante di chi, e perché qualcosa non funziona non è facile da definire. Le interpretazioni rimangono aperte, e forse è per questo che il quadro ha, da sempre, un grande successo: perché ognuno, stimolato dal mistero, può nutrire la propria fantasia, cavalcarne i percorsi e valutare di far terminare la storia del Triplo ritratto criptico così come più gli piace e gli pare opportuno. Ingenerando in tal modo il primo esempio di dipinto psicologicamente interattivo che la storia dell’arte abbia mai avuto.