Press "Enter" to skip to content

Cupido pittore


di Cecilia Bertolazzi

Cecco del Caravaggio. Niente più che un soprannome per anni. Di lui ci rimangono diciotto straordinari dipinti e ancora troppi interrogativi.
Ricostruire il tracciato della sua vita è come seguire un oggetto nella corrente: a tratti è lì, sotto gli occhi, lucido e distinguibile. Poi d’improvviso sparisce, deglutito dall’acqua. Perduto per sempre. Ma così com’era scomparso d’un tratto riemerge. Di nuovo lo possiamo vedere. Un singhiozzo di apparizioni. Un respiro e poi l’apnea e con essa la nostalgia di una certezza.
Poche quelle che puntellano la scarna biografia dell’artista, ricomposta da Giovanni Papi in apertura del catalogo a lui dedicato. Una precaria, ma convincente opera di incastro fra date, solo due le certe, ipotesi e dettagli di un’indagine durata anni e ancora in atto, accompagnata dalla consapevolezza che una nuova, improvvisa scoperta potrebbe far crollare parte delle impalcature fin qui erette.
Con tale avvertenza accostiamoci alla corrente e guardiamo ciò che a tratti emerge e ci racconta di Cecco del Caravaggio.
Conosciuto con questa anagrafe anche fra i suoi contemporanei, colui che si chiamò Francesco Buoneri o Boneri fu il più autorevole e fedele seguace del Merisi. Un’ostinata ortodossia al maestro confermata non solo dal nome, ma pure dagli esiti della sua pittura, ne fa un artista dalla forte personalità, influenzata anche dal recupero di Savoldo leggibile nelle alchimie luministiche e nella passione neocinquecentesca della definizione degli abiti. Caratteristiche rintracciabili nell’Andata al Calvario, nel Martirio di san Sebastiano, nella Resurrezione, nelle Maddalene o nell’Amore al fonte. Un pugno di opere dalla datazione problematica che custodiscono, in diversa misura, le lezioni dei maestri lombardi.
Del Merisi si ritrovano la violenza espressiva, riconducibile alle produzione napoletana, l’elevata temperatura delle epidermidi rossicce, i ghigni grotteschi, i tagli di luce. Il San Lorenzo, le due versioni del Fabbricante di strumenti musicali e la Decollazione del Battista sono invece testimonianza del lascito del Savoldo per l’intensità emotiva delle pose e degli sguardi, per i bianchi cangianti, gli azzurri elettrici e i rossi vellutati degli abiti, per l’impostazione spaziale, obliqua rispetto allo spettatore, dei personaggi. Da queste fonti il Boneri si abbevera spingendosi talvolta oltre, dove lo stesso Caravaggio non arrivò, liberando una pittura audace, spietata, iperrealista. Quadri carichi di invenzioni iconografiche, nitidi, crudi che li rendevano aspri da comprendere e da esporre.
Come avvenne per la Resurrezione, di cui è possibile fornire una datazione certa: 1619-20. Infatti il lacerto temporale nel quale Cecco si muove, con una certa attendibilità, tra Lombardia, Roma e Napoli va dal 1588-9, presumibile data di nascita, fino proprio al 1620. La sensazione è quella di una carriera molto breve, bruciata nell’arco di tre lustri al massimo e interrotta forse da una fine improvvisa. Il totale silenzio dopo il secondo decennio del Seicento autorizza qualsiasi ipotesi. In questo intervallo si fissano con certezza due date. Nel 1619 Agostino Tassi, in uno dei tanti processi dell’epoca, rilascia una testimonianza che ci offre la prima immagine di Cecco artista. Tassi, sei anni prima, era impegnato nella decorazione di Villa Lante a Bagnaia, “ et io alloggiava nel medesimo casino con quelli francesi che tutti stavano nella medesima sala e meco ce stava Ceccho del Caravaggio”. L’affresco, che ferma la Famiglia di Dario presentata a Alessandro, è il primo caposaldo a cui ancorare la produzione romana di Cecco.
L’altra certezza si ritrova nella contabilità dei documenti Guicciardini. Essi dettagliano i pagamenti di tre pale commissionate per la cappella della famiglia di Piero Guicciardini nella chiesa fiorentina di Santa Felicita. Nella capitale pontificia l’ambasciatore dei Medici reclutò tre protagonisti dalla “schola caravaggesca”, tra cui Cecco, a cui venne richiesta una Resurrezione, oggi conservata presso l’Art Institute di Chicago.
Cecco, che in alcuni passi delle carte viene registrato anche come Francesco Buoneri, terminò l’opera nel giugno del 1620, come provano i pagamenti. Tuttavia il dipinto non piacque, e pochi mesi dopo venne liquidato sul mercato. Ad acquistarlo fu Scipione Borghese. L’episodio potrebbe assumere un significato più profondo di una semplice operazione mercantile. Esso infatti diventerebbe un ulteriore collegamento fra Cecco e il Merisi, dato che il cardinale già quindici anni prima aveva acquistato quadri del Caravaggio altrettanto disorientanti, per il gusto dell’epoca, come la Madonna dei palafrenieri. A sigillare il profondo legame tra i due artisti interviene anche il famoso appunto del viaggiatore inglese Richard Symonds, di passaggio in Italia tra il 1649 e il 1651. Egli ebbe accesso alla galleria Giustiniani, dove era conservato l’Amore terreno del Merisi. Colui che posò per il Cupido fu, nel 1601, il tredicenne Cecco. “Checco del Caravaggio he called many he painted was his boy… it was ye body and face of his owne boy or servant thait laid with him” (vedi Stile 108).
Parole illuminanti. Cecco dunque prima di essere pittore fu modello. Ma quel “del” nel cuore del soprannome di Francesco ribadisce più che mai appartenenza, possesso, anche fisico, esercitati dal Caravaggio nei confronti di quel garzoncello moro che “si giaceva con lui”. Una preposizione che specifica non solo l’origine italiana di Boneri, dopo che per anni gli furono attribuiti natali fiammighi, spagnoli e francesi, ma che svela anche una storia di affetti. Un legame sentimentale che sarebbe stato tramandato almeno fino al 1650. Un “del” , infine, che consegna a quel Cupido una sorta di primogenitura, come colui che poteva fregiarsi di essere “discendenza” diretta del Caravaggio.
Una “discendenza” forse anche geografica. In Lombardia infatti si ritrova la gens Boneri o Bonera, famiglia di pittori originari di Alzano Lombardo, che, viste le promettenti doti del giovane Francesco, potrebbe aver deciso di affidarlo ad un conterraneo, il più importante maestro della loro terra, per di più attivo nella capitale dell’arte: Michelangelo Merisi. Una provenienza lombarda che in questo modo risponderebbe anche degli influssi stilistici, nei quadri di Cecco, riconducibili, come detto, al Savoldo, difficilmente acquisibili se non da una visione diretta.
E’ il maestro Merisi però che a Roma lo accoglie, lo tiene con sé, ne fa il suo modello, discepolo, amante. Il “Francesco garzone” che uno stato d’anime del 1605 registra nella casa dello stesso Merisi in vicolo San Biagio, potrebbe essere davvero Cecco. Una reciproca “sudditanza” che spinge Boneri a seguire Caravaggio anche a Paliano e poi a Napoli nei giorni drammatici della fuga da Roma dopo l’uccisione di Ranuccio Tomassoni e che, al contempo, porta Merisi a ricorrere ad una fisionomia a lui cara, quella di Cecco. Tredicenne nell’Amore vincitore, quattordicenne nel San Giovannino, quindicenne nel Sacrificio d’Isacco, diciassettenne o diciottenne nel David con la testa di Golia.
Una corrispondenza, però, tutt’altro che certa, a cui manca l’inesorabilità di una testimonianza. A parte l’affresco di Bagnaia (1613) e la Resurrezione Guicciardini (1619), non possediamo alcun altro appiglio documentario per collocare l’attività di Cecco. Non sappiamo quando egli abbia iniziato a dipingere, e rimane un’ipotesi la sua precocità. Così, ancora una volta, il coinvolgimento artistico-esistenziale con il Merisi ci porta a riconoscere Cecco nel David, opera unanimemente attribuita al primo soggiorno napoletano del maestro. La presenza di Francesco a Napoli alla fine del 1606 e durante l’anno successivo parla di un Boneri diciottenne che poteva agire già autonomamente. Hanno tangenze con Napoli e con i quadri che Caravaggio ivi dipinse l’Andata al Calvario e il Martirio di san Sebastiano.
Più difficile stabilire quanto durò la sua permanenza nella città partenopea. Già nel 1613 doveva essere terminata se, come pare al Papi, la Cacciata Giustiniani è un capolavoro precoce la cui datazione dovrebbe cadere nei primi anni del secondo decennio. Anche se, a questo punto, nello stretto giro di anni che vanno dal 1609 al 1611-12 si troverebbero quasi tutte le tele attribuite a Cecco, ricche di motivi e influenze composite. Come farle coesistere? L’ipotesi più accreditata è che il Boneri avesse fatto ritorno a Roma per rispondere a qualche commissione e fosse poi nuovamente tornato a Napoli. Ormai solo.
Qui, però, si interrompe ogni contatto. Cecco del Caravaggio scompare, sommerso dalla corrente. A noi non resta che aspettare una nuova epifania.