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Dalla fossa emerge il volto di Astarte-Afrodite con altri tesori. Il sensazionale scavo a Mozia di Marsala

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La campagna di scavi appena conclusa a Mozia (Marsala) dall’Università Sapienza di Roma e dalla Soprintendenza dei Beni Culturali di Trapani ha portato in luce un importante reperto raffigurante la dea Astarte/Afrodite. Si tratta di una figura in terracotta con il volto bianco lucente e i riccioli dei capelli rossi. Poco distante è stata trovata una rosetta a rilievo con tracce di doratura; si tratta di uno dei simboli più diffusi e popolari in Oriente e nel Mediterraneo, che ci conferma trattarsi con certezza della dea fenicia.

La campagna di scavi è stata diretta dal Prof. Lorenzo Nigro e da un team di ricerca di cui hanno fatto parte molti giovani ricercatori e studenti.

L’immagine è databile tra il 520 e il 480 a.C., ovvero almeno un secolo prima di quando, nell’imminenza dell’attacco di Dionigi di Siracusa che distrusse Mozia nel 397/6 a.C., fu ritualmente nascosta poco fuori del recinto sacro, in un punto facilmente individuabile e ben protetto. La testa di Astarte è stata rinvenuta all’interno di una stipe, una fossa circolare di circa un metro di diametro, accanto ad altri due oggetti, sempre in terracotta: un disco con la rappresentazione di una rosetta a rilievo e uno stampo raffigurante un delfino dal grande occhio naïve, che hanno portato alla scoperta del volto di Astarte. L’effige si trovava al centro della stipe, deposta, rovesciata, sullo strato di ocra.
Il volto, che è di grande bellezza e grazia, rappresenta una dea astrale (come indica la rosetta dorata) e marina (come indica il delfino dal grande occhio naïve), Signora della vita, della riproduzione, dell’amore, ma anche del mare e della navigazione, delle acque dolci e di quelle marine, quelle stesse acque che i Fenici attraversarono per unire le culture dei popoli del Mediterraneo.
La terracotta è greca, probabilmente prodotta in Sicilia, a Selinunte o Gela; cosa questa usuale tra i Fenici di Mozia che erano avvezzi a servirsi dell’arte greca per rappresentare i propri dei ed eroi.
“Questi risultati – spiega il professore Lorenzo Nigro – sono il frutto di un lavoro di due decenni da parte di un team numeroso e affiatato. È a tutti gli studenti e ricercatori membri della nostra missione archeologica e ai colleghi con cui abbiamo discusso le nostre interpretazioni che si deve la comprensione di uno dei santuari più ampi e affascinanti del Mediterraneo antico, quello dell’Area sacra del Kothon. La dea Astarte viene qui rappresentata con fattezze greche, ma in un contesto rituale e architettonico fenicio: come per la famosissima statua dell’Auriga, i moziesi usano il linguaggio universale del V secolo a.C., quello della Sicilia ellenizzata, per raffigurare quanto di più identitario possa esistere: il culto religioso. Ci insegnano la capacità di assimilare e lasciarsi assimilare, di tradurre e trasmettere senza tradire, che fu tipica degli antichi e, in modo particolare, della Sicilia”.

“La Fondazione Whitaker – precisa Maria Enza Carollo, Direttrice della Fondazione stessa – ha sempre sostenuto i lavori della Sapienza perché questo è il suo primo fine statutario: valorizzare e tramandare il Patrimonio di Mozia e sostenere la ricerca archeologica”.
La campagna di scavo appena conclusa ha realizzato l’obiettivo di approfondire le conoscenze sulle fasi più antiche del Tempio di Astarte con un’indagine che è stata condotta in prossimità del Tempio, nella parte ad ovest lungo il muro del Tèmenos, alla cui base si trova inserita un’ancora antichissima che Sebastiano Tusa, sulla base di analoghi ritrovamenti a Biblo e Ugarit, ha datata intorno al II millennio a.C..
Le ricerche hanno portato in luce dapprima il piano di calpestio esterno al recinto sacro che era coperto da un pesante strato cineroso, riconducibile alla distruzione finale di Mozia ad opera del tiranno Dionigi di Siracusa nel 397 a.C.. Sotto a questo strato è venuto in luce lo scheletro di una zampa di cavallo: un’offerta tenuta ferma da due pietre con, accanto, il frammento accuratamente ritagliato di una kylix attica a figure nere che mostra le zampe scalpitanti dei cavalli di una biga. A questo proposito è utile ricordare che la maggiore divinità di tutta l’area è BaalAddir, il Signore potente, identificato con Poseidon, signore delle acque marine, cui è sacro il cavallo. Baal, come già ricordato, è il compagno di Astarte.

Le indagini sin dal 2002

Il ritrovamento, dovuto alle indagini archeologiche condotte sin dal 2002 dal prof. Lorenzo Nigro nell’area più meridionale dell’isola di Mozia, contribuisce a una rilettura sulle conoscenze della più antica città fenicia della Sicilia. Un primo elemento era stato, nel corso di campagne precedenti, l’individuazione della grande piscina rettangolare di 52,5 metri di lunghezza che non era un porto o un’installazione navale come si credeva ma il centro di un’ampia area sacra, delimitata da un Tèmenos Circolare di 118 m di diametro, con i tre templi maggiori disposti radialmente lungo il perimetro. Quest’area era dedicata al dio Baal, la principale divinità dei Fenici, signore delle acque marine e sotterranee, dio della tempesta e della fecondità e alla sua compagna, la dea Astarte, cui era dedicato un piccolo, ma antichissimo tempio costruito nel settore più settentrionale del recinto sacro in direzione di Erice, luogo in cui sorgeva il grande santuario dedicato alla stessa dea Astarte/Afrodite/Venere.

È stata proprio la scoperta di questa vasca a dare impulso alla ricerca della Astarte di Mozia, la grande dea che, giunta in Sicilia con i Fenici, qui si era fusa con le dee dei popoli che già abitavano questa terra. Una piccola area sacra con un tempietto (sacello), scoperto nel 2007 nella fortezza che proteggeva una delle porte segrete di Mozia a nord-ovest, nella Zona F, aveva restituito, peraltro, una statua di culto in terracotta acefala e una testa scolpita in calcarenite, fortemente erosa. Un altro tassello era stato ritrovato nel tempietto identificato nel Tofet, anch’esso dedicato a questa dea, nella sua accezione di “piangente”, “l’Addolorata”, detta Thinnit o Tanit dai Cartaginesi, che proteggeva i bambini incinerati e sepolti. In questo tempietto sono state trovate le uova di struzzo votive dipinte, simbolo della vita che continua, e numerose statuette di fedeli, realizzate in terracotta.

Ma il Tempio che ha restituito maggiori dati sul culto di Astarte è quello scoperto dalla Sapienza nell’Area Sacra del ‘Kothon’ dove sono state scavate quattro strutture sovrapposte, in uso dall’VIII al V secolo a.C. Nel tempio più antico è stato ritrovato un vaso a forma di melograno, la pianta sacra alla dea perché ricchissima di semi, simbolo di fecondità. Accanto all’edificio più recente, invece, in un grande deposito di offerte, sono stati ritrovati altri reperti: uno stampo per pane, un peso da telaio, un flauto realizzato da un metacarpo di caprovino, un cembalo di bronzo, strumenti musicali volutamente arcaici spezzati ritualmente a metà. E inoltre, una brocca per versare un vino aromatizzato e oggetti sacri alla dea, utilizzati nelle azioni di culto, come un carapace di tartaruga che riporta l’iscrizione l-rbt, ossia “alla Signora”, titolo tipico di Astarte.

In una terza fossa votiva, infine, è stato ritrovato il fondo di una coppa attica ritagliato intenzionalmente con sopra iscritto l’epiteto greco della dea: Aglaia, che significa “luminosa, lucente, pura”: tutti segni che ci indicano come la Astarte/Afrodite del Kothon fosse una dea celeste, al pari di Venere.

La planimetria del Tempio e alcuni dettagli come la nicchia posteriormente al perimetro dell’edificio come una sorte di abside di una chiesa cristiana, e alcuni ritrovamenti avevano riportato alla mente la plurimillenaria tradizione orientale della dea polimorfica: dea dell’amore e della vendetta, della fertilità e della seduzione, astro del mattino, identificata con il pianeta Venere, Inanna dei Sumeri, Isthar degli Accadi e degli Assiri e Babilonesi, Hathor e Iside degli Egizi, Astarte fenicia, Afrodite ma anche Hera e, in alcuni casi Demetra, per i Greci. Astarte era una dea capace di concentrare in sé gli opposti e di rappresentare le tante dee-madri della preistoria del Mediterraneo: dea del femminino, lucente e pura, ma capace di scendere agli inferi e spogliarsi per salvare il suo amato Baal/Adonis/Osiride e ricondurlo alla vita.

Lorenzo Nigro

Lorenzo Nigro, è Professore ordinario di Archeologia e Storia dell’Arte del Vicino Oriente antico e Archeologia fenicio-punica presso l’Università di Roma «La Sapienza». È promotore di progetti di ricerca archeologica internazionali in diversi paesi e regioni mediterranei (Libano, Palestina, Siria, Giordania, Egitto, Tunisia, Cipro, Sicilia, Sardegna, Malta) in collaborazione con numerosi enti di ricerca.

Ha ricevuto premi nazionali e internazionali, tra i quali il prestigioso “Honor Frost Foundation Award 2012” per le scoperte a Mozia; la “Samuel H. Kress Lecturship conferita dall’Archaeological Institute of America” per l’a.a. 2015-2016; l’Octopus Scholar dell’Università di Oxford nel 2016; il Premio Silvia Dell’Orso per la divulgazione del Patrimonio Culturale nel 2019; il Solunto International Award, premio alla carriera per l’eccellenza nel campo dell’archeologia in Sicilia nel 2020; il Premio “Antonino di Vita” per la Divulgazione del Patrimonio Archeologico nel 2021. Le sue attività e scoperte sono caratterizzate dalla forte interdisciplinarietà, con apporti della biologia, della chimica e della fisica.È un archeologo da campo con una vasta esperienza nel Vicino Oriente e nel Mediterraneo da oltre venticinque anni. É co-direttore della Missione a Cartagine e della Missione archeologica in Palestina & Giordania, che conduce scavi nei siti di Tell es-Sultan/Gerico, Tell Abu Zarad/Tapuah e Betlemme in Palestina, e a Khirbet al-Batrawy e Khirbet al-Jamous in Giordania. È il Direttore del Museo del Vicino Oriente, Egitto e Mediterraneo della Sapienza e l’Editor Scientifico della Rivista Internazionale “Vicino Oriente”.

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