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De Chirico esoterico – Attraverso Nietzsche e il disegno alla ricerca del lato nascosto del mondo




Giorgio de Chirico, Il trovatore con la luna, 1970, litografia
Giorgio de Chirico, Il trovatore con la luna, 1970, litografia

Stile arte  ha intervistato Adriano Baccilieri, autore di studi dedicati alla genesi del segno e della metafisica in De Chirico
 
Letteralmente, il termine “segno” indica una figura o un’espressione grafica usata per rappresentare qualcosa, un simbolo. Quale significato attribuisce ad esso De Chirico?
Il termine “segno” deriva dal latino “designare”, nel senso di indicare: allude all’intento della mente, un’idea originaria, destinata a rimanere pura intuizione oppure a divenire un’opera conclusa. Tra gli infiniti testi teorici di De Chirico ricorrono più volte importanti menzioni al disegno: ad esso il maestro affida il compito di rivelare il “demone” delle cose, ovvero lo spirito creatore immaginifico, quell’architettura interna spoglia e spettrale capace di rappresentare l’aspetto oscuro e segreto degli oggetti. Egli concepiva il segno come una sorta di scrittura mentale, lo definiva “impronta di pensiero, rivelazione cognitiva”.
I disegni metafisici dell’artista vanno considerati come documenti in sé conclusi, opere complete, oppure esercizi propedeutici ai dipinti?
In senso strettamente filologico, i disegni appaiono spesso come bozzetti di quadri. De Chirico intendeva il disegno come una prassi obbligatoria e continuata per l’artista, un allenamento periodico e graduale, tanto che ha continuato a disegnare per tutta la vita. Ma di molti disegni non c’è riscontro nei dipinti, a dimostrazione che possono costituire opere concluse.
L’opera di De Chirico si è imposta dal principio per la propria originalità rispetto alle tendenze artistiche dominanti all’epoca. Ciò è forse dovuto alle origini greche del maestro e all’amore per la classicità, sempiterna fonte di ispirazione dei suoi lavori?
E’ indiscutibile: la pittura di De Chirico, indipendente da ciò che si poteva vedere in quegli anni in Italia e in Francia, scaturiva dalla riflessione sull’arte classica, greca e romana. Il pittore amava ripetere di essere venuto al mondo “sui litorali dai quali sono partiti gli Argonauti”, e ha sempre ritenuto assurdo che nessun artista suo contemporaneo – nemmeno Max Klinger, che adorava – fosse realmente “turbato” dalla cultura greca. Anche se lo spirito ellenistico del maestro è stato in seguito occidentalizzato dalle idee simboliste ed alimentato dal pensiero di Nietzsche, soprattutto dalla Nascita della tragedia, opera che più di ogni altra racchiude il senso di turbamento, struggimento ed enigma tanto caro a De Chirico.


Quanto ha contato per Giorgio de Chirico l’insegnamento del suo primo maestro di disegno Mavrudis?
Certo ha esercitato una notevole influenza: Mavrudis è colui che ha trasmesso al giovane De Chirico la disciplina del disegno, quale fondamentale supporto per la pratica pittorica. Poi l’allievo, dotato di un incredibile estro e di acuta intelligenza, ha saputo “oltrepassare” l’ambito della canonicità accademica, rielaborando in modo geniale e personalissimo l’iconografia classica. E questa capacità di prendere spunto dall’antico per creare qualcosa di assolutamente inedito rende De Chirico un alfiere straordinario, comparabile ai grandi del passato.
Nei disegni metafisici gli oggetti della quotidianità divengono simboli o metafore di concetti nascosti dietro l’apparenza del mondo visibile: inevitabile pensare alla filosofia platonica. Ma il carattere onirico delle composizioni, che le rende simili ad allucinazioni e sogni, richiama anche la filosofia dell’ultimo Nietzsche che, in preda al delirio, componeva i “biglietti della follia”. Che peso ha la filosofia, antica e contemporanea, nell’arte di De Chirico?
Pur riconoscendone l’importanza, De Chirico non amava Platone, “generalissimo del pompierismo filosofico”. Prediligeva Eraclito, autore della teoria del “panta rei”, che invocava il “demone”. Inevitabile, però, ravvisare molteplici contatti tra la sua pittura metafisica, volta a manifestare l’aspetto oscuro degli oggetti, e il mito platonico della caverna, con il concetto di ombra, metaforicamente intesa come il lato misterioso e segreto – dunque metafisico – delle cose.
Ma è attraverso Nietzsche che Giorgio de Chirico avverte la realtà quale sistema di segni. Accostandosi al mondo in una prospettiva psicologica e non logica, il filosofo svelò all’artista l’esistenza di un linguaggio nascosto del mondo, che offriva la possibilità di nuove costruzioni.
Non sono mancate interpretazioni freudiane all’opera di De Chirico, specie da parte dei surrealisti francesi. Per quale motivo il maestro rigettò questo tipo di lettura?
Paradossalmente, De Chirico rifiutava l’idea che le sue opere fossero considerate fuori dall’ordinario. Concepiva la Metafisica come “l’insensata bellezza delle cose che noi non sappiamo cogliere”, e al tempo stesso assegnava ad essa un valore concreto e tangibile, quasi fosse un fenomeno naturale, appartenente al mondo reale. Leggere i suoi lavori in senso freudiano o surrealista avrebbe implicato uno spostamento nella dimensione irrazionale del sogno, dalla quale egli rifuggiva recisamente.
Per concludere, c’è un aspetto della mostra che desidera segnalare in modo particolare?
Penso alla sorprendente mitologia dei Bagni misteriosi – tema cui De Chirico si è dedicato in più occasioni -, in cui sono uniti in un insolito e perfetto connubio motivi arcaico-mitologici, riflessi dell’alta borghesia e frammenti di ordinaria quotidianità (vedi Un quadro in 30 righe nella pagina precedente, ndr). Ma anche alla sezione didattica, che documenta ogni fase del modus operandi dell’artista, dal disegno su carta da riporto, alle lastre di stampa, fino al foglio di tiratura impresso in litografia.