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Lorenzo Lotto,, Annunciazione. L’artista si attiene a un modello medievale, raffigurando la sorpresa e la paura di Maria, al momento dell’arrivo dell’Angelo dell’Annunciazione. La Chiesa, in diversi casi, era intervenuta per modificare sinopie e dipinti, com’era avvenuto ad Ambrogio Lorenzetti nella chiesa di San Galgano a Montesiepi. I committenti avevano chiesto all’artista di modificare il dipinto – che era a livello di sinopia – eliminando il timore di Maria, trasformandone pertanto la postura. Lorenzo Lotto acuisce la sensazione di sorpresa-paura, attraverso l’immagine del gatto che salta via, rapido. La funzione semantica del gatto è duplice:realistica e simbolica.Enfatizza, con la fuga disperata, la rapida e improvvisa discesa dell’arcangelo, che sembra esplodere di forza al centro della stanza. E sotto il profilo simbolico interpreta l’eclissi del Maligno al cospetto del messaggero celeste che annuncia l’arrivo di Cristo. Entrambi i registri – realistico e simbolico – convivono perfettamente nell’impaginazione di questa opera straordinaria sotto il profilo dell’invenzione
Creatura incantevole di ascendenza divina o alfiere delle forze oscure, confidente delle streghe e cooperatore cosciente di nefasti sortilegi: nei secoli il gatto ha saputo irretire alchimisti e poeti maledetti e al contempo suscitare le esecrazioni di uomini di chiesa e di semplici superstiziosi. Se i teologi cristiani lo consideravano manifestazione empirica del demonio, Baudelaire ne rimaneva ammaliato, tanto da dedicargli versi appassionati: “Vieni, mio bel gatto, sul mio cuore innamorato; / ritira le unghie nelle zampe, / lasciami sprofondare nei tuoi occhi / in cui l’agata si mescola al metallo…”.
L’Egitto lo venerava sotto il nome di Eluro: chi lo uccideva, commetteva un sacrilegio ed era condannato a subire atroci supplizi; in caso di morte naturale, le persone della sua casa si radevano le sopracciglia in segno di lutto, lo imbalsamavano ed erigevano una statua di onice o marmo in suo ricordo. Secondo il mito greco, il gatto era stato plasmato da Diana per porre in ridicolo il leone con cui il dispettoso Apollo soleva perseguitarla; i latini, invece, ritenevano che la divinità lunare si fosse tramutata nell’animale per sottrarsi alle insidie di Tifeo, il gigante dalle cento braccia.
Ogni accezione positiva legata alla bestiola scomparve con l’avvento del cristianesimo: le silenziose movenze, le pupille che s’illuminano nel buio e la predilezione per i recessi impervi e paurosi ne determinarono l’assimilazione alle potenze occulte.
Stando ad un’inveterata superstizione popolare, Belzebù aveva l’abitudine di incarnarsi nel felino per passeggiare inosservato tra gli uomini; la caccia ai sorci alludeva, negli exempla dei predicatori, al trionfo del male sul peccatore, vulnerabile come il topo: “Il diavolo – scriveva Luca da Bitonto – si prende gioco di alcune anime, come fa il gatto con il topo che, lasciato fuggire più volte, viene poi catturato ed ucciso”.
A partire dal XIII secolo la natura selvaggia del gatto, refrattario ad ogni tentativo di addomesticamento, fu messa in relazione con la donna e la sua presunta attitudine alla lussuria e alla vanità. Talvolta, nell’iconografia dell’Ultima cena, esso veniva raffigurato nell’atto di affrontare un cane minaccioso ad indicare inimicizia e, se effigiato ai piedi di Giuda, apostasia. Nell’Annunciazione di Lorenzo Lotto l’evento miracoloso assume una dimensione intimamente umana: turbata dall’improvvisa apparizione di Gabriele, che esibisce una flessione reverente un po’ impacciata, la Vergine abbandona il leggio e si volta con un sussulto. Ad imprimere ulteriore dinamismo alla composizione, un gatto dagli occhi di brace fugge impaurito verso la padrona: il male non può sostenere la vista dell’Altissimo, che irrompe dalla loggia sul giardino irradiando il grigio interno domestico del suo intenso bagliore metafisico.
Nell’Ultima cena commissionata dal monastero padovano di Santa Giustina, Romanino ritrae l’animale ai piedi del tavolo, accanto a Giuda, identificabile per il sacchetto con i trenta denari che cela avvolto nella veste. Al margine opposto, invece, è rappresentato un cagnolino dal manto candido con il muso rivolto verso Gesù, quale simbolo di fedeltà e devozione.
Un esempio affine è offerto dalla pala eseguita dallo stesso autore, realizzata per la chiesa abbaziale di Santa Maria Assunta di Montichiari, in provincia di Brescia, ai confini con il Mantovano: anche in questo caso la bestiola compare accovacciata sotto al desco, nei pressi dell’Iscariota che, lontano dagli occhi dei commensali, sparge il vino, sangue di Cristo, a terra, segno eloquente del tradimento appena perpetrato.

Alessandro Bonvicino detto il Moretto, Cena in Emmaus, 1526 circa, olio su tela, 147 cm × 305 cm, Brescia, Pinacoteca Tosio Martinengo

Alessandro Bonvicino detto il Moretto, Cena in Emmaus, (particolare), 1526 circa, olio su tela, 147 cm × 305 cm, Brescia, Pinacoteca Tosio Martinengo
I tre felini che guatano l’uccello tenuto con lo spago dall’ultimogenito del conte di Altamira alludono, nel Ritratto di Manuel Osorio Manrique de Zuniga di Goya, alle insidie di cui si avvale il maligno per adescare l’anima. Un’accezione morale indubbiamente austera che il pittore, tuttavia, stempera con la consueta ironia caricaturale: il volatile effigiato è una gazza la quale, fedele alla sua fama di ladra, ha “rubato” il biglietto da visita dello stesso Goya. Una soluzione che consente di conferire spontaneità e freschezza alla scena e di risolvere altresì in modo brillante e inusitato l’esigenza di firmare la tela.
La Natura morta di fiori con gatto e trappola per topi di Abraham Mignon vuol essere un monito contro i pericoli della passione amorosa e del corteggiamento: il micio dal vello tigrato che provoca il sorcio prigioniero nella gabbia incarna la voluttà. L’assunto è ribadito dal vaso di fiori che, urtato dal felino, oscilla pericolosamente ai bordi del tavolo, icastico paradigma della volubilità dell’indole umana, facile preda di infide suggestioni.
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