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Tra Settecento e Ottocento ritratti realizzati in miniatura costituivano un notevole supporto affettivo. Le miniature venivamo scambiate tra i fidanzati e gli amanti. L’uomo la conservava frequentemente in una tasca mentre, molto spesso, le donne la portavano legata a una collanina e la lasciavano cadere, sotto gli abiti, tra i seni. Ritratti in miniatura ricordavano anche i defunti. Le madri che avevano perso un figlio, le vedove, i vedovi ricordavano la persona scomparsa portandone l’immagine sul cuore. In un’epoca nella quale la fotografia non era stata ancora inventata, le miniature di ritratti assunsero un grande valore, anche economico. Il pittore doveva essere molto abile nel realizzare, in pochi centimetri – con un pennello dotato di poche setole, ricorrendo all’aiuto di una lente – un ritratto somigliante. Per avere un buon supporto di partenza, esse si eseguivano normalmente su avorio lucido. La superficie estremamente liscia consentiva di evitare qualsiasi asperità – che sarebbe stata deleteria per il minuto ritratto – e di dare, dopo la verniciatura, o nel corso stesso dell’opera,in alcuni casi realizzata mischiando pigmento alla vernice finale e raggiungendo pertanto un esito vicino a quello della stesura di smalti, una notevole compattezza. Il colore dell’avorio aiutava il pittore poiché gli forniva una colorazione di partenza ottima per realizzare incarnati, che correggeva con poche pennellate diluite, di rosa.
In alcuni casi le giovani donne posavano anche a seno nudo affinchè il proprio amante tenesse con sè un’immagine intensa e conturbante, capace di riaccendere i sensi. Ricordo, amore, sesso, promesse, sogni erano racchiusi in un cerchio di cinque o sei centimetri. Con una possibile copertura stilistica: le opere, si diceva, ricordavano i nudi della classicità – le Dee erano rappresentate a seno nudo – e i ritratti senza veli del Rinascimento. Il periodo è quello di Ugo Foscolo, nel quale si raccordavano elementi del Neoclassicismo e del Romanticismo. Ma certamente, tra la fine del Settecento e i primi decenni dell’Ottocento, la libertà sessuale era notevole, anche se doveva essere esercitata nel puro rispetto delle formalità. Per questo l’attività del miniaturista – che peraltro veniva messo al corrente di aspetti molto riservati della vita dei propri clienti – era molto redditizia. Le piccole opere venivano realizzate a fronte del pagamento di cifre molto elevate. Il miniaturista Gigola, ad esempio, che operò a Milano tra la fine del Settecento e l’inizio dell’Ottocento, accumulò, con il lavoro, un’autentica fortuna. Uno delle sue miniature ardite ha per soggetto Francesca “Fannie” Lechi (Brescia, 1773 – Brescia, 1806) rivoluzionaria, giacobina e patriota italiana. Figlia del conte Faustino Lechi e della contessa Doralicie Bielli, sorella di Giuseppe Lechi e Teodoro Lechi, fu istruita nel collegio di Salò prima e di Castiglione dopo. Fuggì di casa in giovane età e sposò, il 21 agosto 1793, Ghirardi, un avvocato veneto. Questa donna, bella e passionale è citata in un’opera dello scrittore francese Stendhal, la Vie de Napolèon, dove lo scrittore paragona gli occhi della Lechi, ai più belli di tutta Brescia. “La comtesse, Gherardi fille du comte Lecchi, avait peut-etre les plus beaux yeux de Brescia, le pays de beaux yeux”.
(Da Vie de Napolèon di Stendhal)