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Elio Fiorucci – A tutto Pop, così spiegava a Stile arte il rapporto tra moda e pittura




Elio Fiorucci
Elio Fiorucci

intervista di Enrico Giustacchini
Fiorucci, nessun altro creatore di moda ha avuto, come lei, un rapporto così stretto con quel grande fenomeno della cultura del Ventesimo secolo che fu la Pop Art. Un rapporto quasi simbiotico, direi. Scandito, oltre che da affinità estetiche, pure da importanti e duraturi rapporti con i maggiori protagonisti del movimento. Quando ho cominciato la mia avventura, a metà degli anni Sessanta, mi sono trovato da subito immerso in un clima affascinante: quello della Pop Art. I miei approcci iniziali sono stati con gli inglesi, al tempo dei primi viaggi a Londra; poi con gli americani, in particolare a New York. Mi sono sentito immediatamente molto vicino a questo fenomeno: vi era una totale coincidenza filosofica con gli artisti pop. Ciò ha riguardato non solo la moda, ma l’intero ambito della comunicazione della mia attività. Con i miei collaboratori abbiamo ideato un’enorme quantità di immagini che si collegavano ai prodotti, basandoci ampiamente sui presupposti della Pop Art.

Ciò ha coinvolto tutto quanto stava attorno all’abito: il packaging, i cataloghi, persino le etichette e i cartellini… Proprio così. E i poster, i cartelli vetrina, la merceria… I miei sacchetti contenitori sono finiti in un volume pubblicato in America già nel 1987. I cartoncini di invito alle nostre manifestazioni sono spesso stati studiati e realizzati da maestri internazionali della pittura e della fotografia. E potrei continuare.

Una summa della vorticosa, inesauribile enciclopedia iconica di Elio Fiorucci può essere considerata la celeberrima collezione di figurine Panini del 1984. Un vero monumento alla Pop Art, “un compendio di una storia grafica – cito Gianluca Lo Vetro – che ha saputo esplorare ed anticipare il futuro dell’immagine: giocoso (i fumetti); irriverente (le citazioni hollywoodiane); seducente (le pin up di Vargas); avveniristico (i circuiti elettronici, i robot, i dischi volanti) e al tempo stesso nostalgico (l’amore per il revival)”. Sa che di questa raccolta furono venduti 105 milioni di pezzi? Franco Panini mi confessò, tempo dopo, che dapprincipio non aveva creduto più di tanto nell’iniziativa. Salvo ricredersi ben presto: “Ma ci pensi che le tue figurine hanno venduto come quelle dei calciatori del Milan?” mi disse. Insomma, fu un successo incredibile. E, a tutt’oggi, sono l’unico stilista che ha avuto l’onore di una collezione di figurine a lui dedicata.

Fu un’operazione anche molto ironica. Ma l’ironia è una costante della mia personalità, e non può che riflettersi nelle cose che faccio. Pure in questo c’è parecchio della filosofia della Pop Art.
E allora veniamo al massimo interprete di quel movimento, Andy Warhol. Un grande amico, per lei. Nel 1976 aprimmo il Fiorucci Store a New York, sulla 59esima. Il negozio sarebbe diventato un luogo di incontro per le comunità artistiche della Grande Mela, ed in particolare per i talenti emergenti. Andy Warhol lo scelse per presentare “Interview”. Arrivò, e chiese di sedersi dentro la vetrina, a firmare le copie della rivista a tutti i clienti che entravano. Momenti unici e irripetibili, che avvenivano in un piccolo villaggio chiamato New York. Un anno più tardi, si inaugurò a Manhattan lo “Studio 54”, discoteca leggendaria. L’opening fu organizzato da me; alla serata partecipò – con Bianca Jagger, Margaux Hemingway, Grace Jones e tanti altri – anche Warhol. Che fu mio ospite pure nel 1979, per l’apertura del mio negozio di Los Angeles: c’era una tale ressa, che le forze dell’ordine ebbero il loro bel daffare. Senza dimenticare la festa in suo onore che allestii a Milano nel 1987, quando Andy venne in Italia per la propria mostra ispirata a Leonardo.
Andy Warhol con Fiorucci
Andy Warhol con Fiorucci

Alla Factory con Warhol a discutere di plastica e di colori fluorescenti
Eventi pubblici a parte, con Warhol lei ha condiviso un percorso artistico comune. Il maestro della Pop ne riferisce a più riprese, dalle pagine del suo diario. Sì, ci vedevamo spesso. In diverse occasioni andai a trovarlo alla Factory. Ogni volta io mi stupivo della modernità dei suoi lavori. Scambiavamo idee e opinioni sull’uso di acrilici fluorescenti, a lui così congeniale. Gli dicevo che era proprio questa tecnica, a mio giudizio, a conferire alla sua opera quell’aura di modernità. Mi rispondeva, semplicemente: “Uso i colori acrilici perché sono i più simili ai colori fluorescenti della TV”. Io avvertivo che ci muoveva un analogo sentire, che ci affascinava uno stesso modello iconico e cromatico.
Del resto lei, Fiorucci, non ha esitato, nelle sue creazioni di moda, a utilizzare la luce inedita, nuova della fluorescenza (gli “abiti fluò”), così come il neon è diventato un elemento decorativo dei suoi negozi. E la passione per la plastica – fluorescente o no – è un’altra delle cose che la avvicina a Warhol. Beh, non credo vi sia nulla di più “pop” della plastica. Che cosa ha scritto Andy nel suo diario? “Fiorucci è proprio un luogo divertente. E’ tutto ciò che ho sempre voluto, tutta plastica. E quando esauriscono qualche articolo non credo lo ripetano”.
Keith Haring in una pausa durante la sua performance milanese del 1984
Keith Haring in una pausa durante la sua performance milanese del 1984

Da Andy Warhol a Keith Haring. Mi racconti della performance che Haring fece qui, nel negozio di Galleria Passarella, nel 1984. Invitai Haring a Milano, stregato dalla sua capacità di elevare l’estemporaneità ai gradini più alti dell’arte. Egli diede corpo ad un happening no stop, lavorando per un giorno e una notte. I suoi segni “invasero” ogni cosa, le pareti ma anche i mobili del negozio, che avevamo svuotato quasi completamente. Fu un evento indimenticabile. Io feci portare un tavolone, fiaschi di vino, bicchieri. La gente entrava a vedere Keith dipingere, si fermava a bere e a chiacchierare. Ventiquattr’ore di flusso continuo; e poi i giornali, le televisioni… In seguito, i murales sono stati strappati e venduti all’asta dalla galleria parigina Binoche.
E da Keith Haring a Jean-Michel Basquiat. Nel 1980 produssi, con Rizzoli, “New York Beat”, film sul fenomeno, allora agli esordi, della New Wave, scritto da Glenn O’Brien, critico musicale di “Interview”. Interprete della pellicola era, appunto, Basquiat, al tempo ancora pressoché sconosciuto. Si tratta dell’unico film in cui compare l’artista. L’opera, restaurata, è stata presentata a Cannes nel 2000 con il titolo “Down Town ’81”.
Jean-Michel Basquiat in due sequenze del film “New York Beat (Down Town ’81)”
Jean-Michel Basquiat in due sequenze del film “New York Beat (Down Town ’81)”



Nel ’77 Antonio Lopez disegnò i costumi del balletto di “Studio 54”
Un altro artista con cui lei ha lavorato molto è stato Antonio Lopez. Lopez ed io ci incontrammo nel 1977. Lui era già famoso, e Warhol gli aveva affidato l’esecuzione delle copertine di “Interview”. Fui subito conquistato dal suo enorme talento. Accettò di disegnare i costumi per la sfilata-balletto di Alvin Ailey da me prodotti per l’apertura di “Studio 54”, cui accennavo prima. Quei disegni sarebbero poi apparsi in un ampio servizio su “Esquire”. Sempre per me l’artista portoricano organizzò quello stesso anno una sfilata show al Busby Berkley. E poi tante altre cose. Era straordinario anche come fotografo: fu lui l’autore degli scatti della serie che promosse nel 1978 l’abbigliamento in Pvc e underwear a cuore.
Una campagna che certo colpì l’immaginario collettivo, per un utilizzo del nudo in direzione di una forte sensualità, sebbene mediata dalla consueta ironia fiorucciana. E, a proposito di fotografia: lei ha sempre voluto accanto a sé fotografi tra i più geniali e inventivi. E’ vero. A cominciare da Oliviero Toscani. E poi Roger Corona, Bruce Andrews, Rocco Mancino, Carl Bengtsson, Terry Jones, Douglas Kent Hall, Attilio Concari…
Due celebri fotografie di Antonio Lopez per Fiorucci: “Nudo in Pvc” (1978) e “Cuore di slip” (1979)
Due celebri fotografie di Antonio Lopez per Fiorucci: “Nudo in Pvc” (1978) e “Cuore di slip” (1979)

E adesso, vorrei parlare con lei di materiali. Il rapporto dell’artista Fiorucci con i materiali è sempre stato, mi sembra, un rapporto di estrema libertà. Da questo punto di vista non mi sono mai posto dei limiti. Di solito gli stilisti dichiarano: io uso quei tessuti, io uso quei colori… Per me, tutti i materiali sono possibili. Ricordavo la mia passione per la plastica, il ricorso al Pvc; ma gli esempi sono infiniti: la paglia, la rete, il legno, il peluche, la gomma, il vinile, il neoprene, per non dire del Tyvek, rivoluzionario tessuto-carta utilizzato in una mia collezione del 1976, o, nel 1982, della Lycra, più che una fibra, una “seconda pelle” di stoffa, che avrebbe vestito il fenomeno del disco look, aprendo il corso all’abbigliamento elasticizzato. Alla base di tale continua sperimentazione c’è stato, sempre, un pensiero forte, una sorta di parola d’ordine: decontestualizziamo ciò che già c’è e ricontestualizziamolo nel mio mondo, il mondo Fiorucci. Convinto che tutto ci stava – e ci sta – bene dentro, che tutto, all’interno di questo mondo, assume una propria fisionomia, una fisionomia nuova.
 
Il mondo in vetrina, perché la vetrina è un mondo (da scoprire)
Un mondo intero dentro una vetrina, si potrebbe dire. E le sue vetrine non potevano non essere investite, proprio per ciò, di un ruolo fondamentale. Lo aveva capito benissimo Warhol, quando scelse di “autoesporsi” nella vetrina, appunto, del Fiorucci Store newyorchese. Ed è già stato proposto, da taluni, un rapporto diretto con il concetto di “vetrinizzazione del mondo” avanzato da Achille Bonito Oliva, benché riferito, dal critico, ad Internet. Io credo di avere contribuito ad anticipare certe tendenze. Le mie vetrine erano nate, sin dall’inizio, per includere, e non per escludere. Per selezionare, magari, ma solo in senso “orizzontale”. Addirittura, in diverse occasioni, per “esporre” persone: ecco allora le “vetrine viventi”.
Potremmo definirle performance di Body Art? Sì, potremmo definirle così… Per essere sincero, ne ho combinate di tutti i colori, mi sono divertito a giocare con la fantasia.
Vista l’importanza assunta dai suoi negozi, non c’è da stupirsi che alla realizzazione e all’allestimento degli stessi abbiano contribuito i migliori architetti, pittori, scultori. La lista è lunga: Amalia Del Ponte, Thomas Maldonado, Franco Marabelli, Ettore Sottsass, Andrea Branzi, ed altri ancora.

Lo stilista Jean Paul Gaultier ha affermato: “La prima volta che sono venuto a Milano, prima di andare a vedere musei e monumenti, mi sono recato da Fiorucci. Perché era la cosa più importante da scoprire in quella città”. Per Vivienne Westwood, “Fiorucci è il maestro di tutti noi”. E Bruce Springsteen ha confessato: “Quando il Metropolitan mi ha chiesto un oggetto simbolo della mia personalità da esporre, ho dato la mia chitarra ed i miei blue jeans Fiorucci”. Fiorucci, se le chiedessero di condensare, in una battuta, il senso della sua attività, dagli esordi sino ad oggi che cosa risponderebbe? Direi che il mio impegno nel campo della moda mi ha permesso di attraversare altri mondi meravigliosi, come l’arte, od il cinema, o la letteratura. Direi che ho lavorato con artisti da favola, e loro hanno lavorato con me. Direi che la mia è stata senza dubbio un’esperienza anomala, ma straordinaria. L’esperienza di un uomo che ha sempre voluto ficcare il naso un po’ dappertutto.