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Elisabetta Spighi, il vento variabile della metamorfosi. Il sentimento e l'anima dei luoghi


 
di Stefano Maria Baratti
 
Soffia ovunque un vento variabile con vari rinforzi su tutti i soggetti di Elisabetta Spighi (1965),  pittrice forlivese di grande vitalità che travalica i consueti schemi delle convenzioni artistiche di stampo accademico, enfatizzando da un lato le peculiarità di un’indefinita vita campestre, dall’altro un aspetto magico del genus loci, con un genere simbolico e fiabesco, spesso disinibito, caratterizzato da un insolito realismo magico dall’effetto straniante.

 
In un’esibizione ora caricaturale ora descrittiva di situazioni in continua evoluzione, l’artista incorpora nelle sue tele prospettive multiple tra leggenda e folklore, distorsioni temporali, ciclicità stagionale e assenza di temporalità. I soggetti, immersi in un’ambientazione non bilanciata,  vibrano in un vortice di scenari idillici con il paesaggio, mossi da una sensazione di squilibrio all’interno di una composizione «organica», dove sia il peso spaziale che una serie di fattori (dimensioni, colori, volumi) formano una perfetta osmosi tra le figure umane e la campagna circostante, in cui passato e presente sono collassati in un insieme di dettagli sensoriali e di valenza mitologica.

 
 
«Il messaggio che desidero offrire con le mie opere è proprio quello dell’unione con la Natura, del coraggio di infrangere i limiti e le menzogne delle apparenze per assaporare la Vita nella sua totalità  di colori, sapori, profumi, musiche.» Ecco come Spighi descrive l’incontro con la natura – un un filone attribuito a determinate opere narrative fin dai tempi della nascita della civiltà – un’interpretazione che si potrebbe definire panteistica – dove boschi e colline diventano luoghi di wilderness fuori dai limiti della storia, mitizzati in un’«età dell’oro». Attraverso tematiche che, senza sconfinare nell’astrazione, rappresentano allegoricamente i labirinti dell’anima in maniera  innovativa, estetica e autoreferenziale, la pittrice sceglie un terreno affine, quello di un «Locus Amoenus», un paesaggio come elemento magico – centrale per millenni nell’immaginario occidentale e idealizzato nell’Arcadia delle Bucoliche di Virgilio – che può essere solo intuito senza necessariamente essere mai spiegato. 

 
Tra i tanti temi di cui la sua opera si nutre, l’artista si concentra su quello della metamorfosi, un leit-motiv ricorrente nei suoi personaggi, alternando contemporaneamente soggetti mutati in arbusti (le donne-albero, sacerdotesse che incarnano l’archetipo di Demetra) con elementi paesaggistici – terreni o colline – a loro volta trasformati in personaggi femminili. Innumerevoli sono i richiami e le sorgenti referenziali: riti sacrificali pagani, archetipi dell’adorazione della terra,  sagre mediterranee della primavera, culti della divinità latina Pomona (venerata come Patrona Pomorum), il mito di Apollo e Dafne,  influssi mariani, nonché il culto dell’albero (dendrolatria) o «culto arboreo» che si esplicita nel druidismo e nel paganesimo germanico, traendo la spiritualità dal bosco sacro.

 
Pittrice dotata di una sensibilità che attinge la propria ricchezza espressiva negli elementi magici e sovrannaturali, Spighi dichiara che dipingere è  «vivere veramente, ritrovare l’anima smarrita nelle prigioni dei limiti e lanciarla nell’infinito», quindi elabora nelle sue tele degli scenari incantati, immersi in una magica sospensione, con personaggi e soggetti che vivono fenomeni dagli effetti inquietanti nel retaggio di rapporti panteistici nella coppia «uomo-natura» riconducibile alla struttura della fiaba di Vladimir Propp:  foreste popolate da divinità silvestri, strane creature e luoghi dove avvengono incontri straordinari e da cui i protagonisti ne escono completamente trasformati.

 
La tavolozza dell’artista forlivese si esprime con valori cromatici vivaci e primari, fedele a quel realismo magico e a tutte le influenze incociate della tradizione modernista. Alla libertà pittorica di estrapolare simboli da paesaggi primitivi e onirici corrisponde l’ispirazione spontanea come risposta alle captazioni del proprio ambiente. Se la maggior parte delle sue opere riproducono una natura misteriosamente rigogliosa, quasi edenica, dove l’essere umano si arborizza e porta con sè un senso iniziatico – al contempo una natura pericolosa e tentatrice che richiama quella di Rousseau – parallelamente nasce un nucleo di  immagini (raramente degli interni) dove si sprigiona un senso tumultuoso di forme libere, sotto forma di caledidscopici ricordi d’infanzia, tra stupore e meraviglia, un filo conduttore che ricorda la lezione di sensibilità poetica nell’originalissimo linguaggio visivo di Marc Chagall.

 
«Da adolescente ho amato la suggestione suscitata dalle opere di la potente tragicità dei pittori espressionisti e la corposità di Guttuso; più  avanti mi ha affascinato la leggerezza pensosa di Chagall e, soprattutto, i drammatici mostri di Goya. Mi hanno sempre attratto gli incendi di colori e la sfrenata vitalità delle pitture africane e dell’America latina, la pregnante concretezza dell’arte primitiva in generale.»
Tragicità, corposità, “leggerezza pensosa”, mostri e sfrenata vitalità: tutti elementi derivati dalle lezioni di maestri del secolo scorso che Spighi ripropone con molteplici variazioni, comunicando attraverso il potere di un mondo intriso di stupore un immaginario onirico in cui è difficile discernere il confine tra realtà e sogno. Soprattutto nei ritratti, quasi sempre dotati di simmetria bilaterale essenzialmente statica, vige una centralità che si caratterizza in uno schema compositivo dove lo sfondo del dipinto – paesaggi bucolici con intrecci di foglie, rami e fiori con fenomeni di arborizzazione o pietrificazione  –   non funge da coronamento al soggetto, ma ne determina lo spessore fisiognomico e la stessa psicologia caratteriale. Grazie ad un’azione reciproca tra due campi visivi e prospettici – il contrasto di un primo piano apparentemente colto nella quotidianità e uno sfondo che suggerisce uno spazio illusorio – si alimentano le dimensioni dell’enigma e della meraviglia. 

L’osservatore assiste a continue metamorfosi in una proliferazione di forme sature di vivi simbolismi, altalenando significato e significante, rivelando elementi magici in un contesto altrimenti realistico. In questo universo di sogni dai colori accesi,  le tele di Elisabetta Spighi sono popolate da personaggi, reali o immaginari, che si affollano nella fantasia dell’artista, intrise di riferimenti spirituali da cui emergono antecedenti con una produzione latinoamericana (sulla scia di Diego Rivera e Frida Khalo), dotata di una consapevolezza senza regole o dogmatismi, fuori o al margine dell’arte accademica, maturatasi dalla oggettistica di «bodegones» e di ex-voto, quindi ripresa dall’artista forlivese nella medesima tradizione plastica e figurativa, dove l’elemento decorativo assume un rilievo simbolico nell’eterno confronto tra realtà e fiaba, tra condizionamenti sociali, poesia e magia.

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Contemporaneamente agli studi compiuti a Forlì per conseguire il diploma di maestra d’arte con indirizzo decorazione pittorica,  Elisabetta Spighi presta la sua collaborazione come allieva presso lo studio di artisti locali. Sin dalla giovane età, realizza e crea pitture su tela, legno, vetro e stoffa, decorazioni di murales e trompe-l’oeil per un pubblico privato. Alla fine degli anni ‘80  inizia ad esporre in mostre collettive e personali, a San Sepolcro, Cortona, Firenze, Poppi,  Arezzo, Bagno Di Romagna e Forlì.