Vecchia moda, quella della presentazione del pene. Preservarlo, innalzarlo, sostenerlo, fingere che non conosca requie e che non si ritiri mai da una posizione aggressiva, per quanto scomoda. Pene in erezione significa machismo. Forza.
Il pene eretto è il corno dei cervi, dei bisonti. E’ inquietante per gli altri maschi e intende attirare le femmine, almeno nelle intenzioni, ed essere deterrente rispetto agli altri maschi. In fondo è uno scettro. Il maschio dominante può esibire il pene.
Lo usano ancora certe tribù antiche, l’astuccio penico. Vengono utilizzati più materiali per confezionare il regale contenitore, ma tra i più adatti è la coda di una zucca appuntita. Ora ci si affida alle creme, alla ginnastica dell’organo – c’è anche quella – o a gli interventi chirurgici.
Pensavamo che, con l’evoluzione culturale, certe cose rimanessero solo nel privato, ad alimentare la parte più ferina del nostro essere. E mai avremmo pensato che nel Cinquecento la moda del pene finto o rafforzato, fosse un fenomeno dilagante nelle élite. Nella saccoccia della braghe ci si infilava di tutto, all’inizio per pura comodità. Poi ci si accorse che ponendo il fazzoletto in quel punto si otteneva un effetto ingrossamento, simile a quello che le donne ottenevano con gli abiti a livello di seno, di ventre e di natiche. Quindi il contenitore della braghetta fu programmaticamente concepito, negli abiti.
Così i sarti presero a trasformare la tasca della braghetta e a ricavarne un pene di stoffa, che usciva dalle sopravesti. La “coda” non avrebbe dovuto oscillare troppo perchè sarebbe apparsa ridicola. Cosi, in sartoria, eccedevano in punti di tensione. Doveva essere salda come una prua, precedere gloriosamente il portatore. Ed ecco il prodotto, testimoniato da numerosi artisti del Cinquecento. Ne prendiamo un paio.
Parmigianino che ritrae (qui sopra) Pier Maria Rossi di Sansecondo, attorno al 1539-40 lo coglie nella fierezza della condizione guerriera, nella sontuosità di una balconata romana. L’estensione della brachetta bianca è perfetta, nella giovanile fierezza di chi la indossa. Il pene dell’abito riecheggia l’elsa della spada e l’artista tesse una lode alla spada-pene, dipingendo la statua antica, sullo sfondo, alla nostra destra. E’ Marte. Da lontano non è possibile capire cosa esibisca. Solo avvicinandosi un po’, si vede che maneggia l’arma e non l’attributo priapeo.
Ma la posizione è la stessa. Un gioco sottile, sotto il profilo iconografico. Come le brache: tagliate, come usava allora, alla lanzichenecca, rinviano, nella decorazione, alla forma delle vulva. Ma non è finito qui, il divertimento sessuale che avviene, evidentemente, nella piena complicità tra committente e artista. Isolando un particolare, vediamo all’improvviso che la mano-elsa di Rossi, diventa una donna che osserva ammirata il grande pene di Marte (qui sotto)
Dal cavaliere sciupafemmine, al politico, elegante e morigerato.
Diabolica la braghetta con estensione indossata da Antonio Navagero, nel 1565, per apparire al cospetto del grande ritrattista bergamasco Giovan Battista Moroni. L’effigiato è nientemeno che il Podestà di Bergamo, colto in un momento di serenità, con una bella lettera in mano.
E’ un uomo soddisfatto di sé, degli incarichi – ecco il motivo della lettera, che gli comunica probabilmente la “promozione” -, in pace con il proprio corpo. Ostenta mitezza e un corno diabolico, all’inguine.
La posizione asseconda il turgore dell’imbottitura della braghetta, ampiamente entrata nella moda al punto da non coinvolgere più soltanto giovani rampanti, ma anche politici ai vertici delle amministrazioni territoriali. Ma la moda non proseguì per molti decenni. In effetti in un mondo controriformato questo uncino risultava eccessivo.
