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Federica Gonnelli


Federica Gonnelli, finalista al Premio Nocivelli 2014, analizza la propria opera
Gonnelli_La fine del vel(l) d'oroi
LA FINE DEL VEL(L)O D’ORO”
Sono nata a Firenze nel 1981, città d’arte e di moda. Sono cresciuta vicino a Prato: tra stoffe, scatoline di cartone, fili colorati, manichini, carte, abiti, matite, grucce e quant’altro concorre nella realizzazione di un abito o di un’opera d’arte, che nella mia giocosa creatività di bambina ho indifferentemente sempre mescolato. Elementi inscindibili che per me, avevano un’unica base, il disegno e per questo, il desiderio espresso durante lo spegnimento delle candeline di un mio compleanno, di ventiquattro anni fa, fu esattamente: “voglio saper disegnare”.


Se da piccola il mio obiettivo era “creare abiti”, crescendo e scegliendo il Liceo Artistico per proseguire il mio percorso scolastico ed artistico, il mio obiettivo è stato creare, creare indistintamente, “creare arte”. Con il passaggio all’Accademia di Belle Arti di Firenze, dopo un anno di durissima ricerca, ho capito che non dovevo ignorare le mie sperimentazioni di bambina ed anzi, le dovevo riscoprire. Ad un certo punto della mia ricerca artistica, dopo aver sovrapposto: velature di colori, carte, elementi vegetali e fili sulla tela ho sentito il bisogno di avere più profondità, ho sentito il bisogno di dare più spazio e respiro alle stratificazioni che componevano le mie opere. Ho deciso di sfruttare lo spessore del telaio, applicando sul retro un pannello di legno e trasformandolo in una sorta di scatola all’interno della quale avevo lo spazio necessario per porre i vari elementi, infine rivestendo la composizione con un velo d’organza.
Dal 2001, infatti, ho sviluppato una profonda ricerca sul rapporto contenuto-contenitore che si snoda intorno al rapporto tra opera d’arte e corpo e tra corpo e natura, “giocando” con gli oggetti più disparati, terrecotte, vetri, specchi, fibre naturali e sintetiche, che ripongo in scatole di legno e con immagini alle quali sovrappongo, grazie alla trasparenza dell’organza altre immagini. La spiccata tridimensionalità rafforza il rapporto tra contenuto e contenitore, sul velo d’organza appaiono immagini e figure che si sovrappongono e instaurano un dialogo con gli oggetti contenuti. Gli oggetti contenuti sono talvolta semplicissimi, estrapolati dalla vita di tutti i giorni ed elevati ad oggetto prezioso, a reliquia. Talvolta gli oggetti sono piccole sculture biomorfe o antropomorfe che realizzo con i più vari materiali.
Il velo d’organza è un abito, una pelle, una protezione, un confine sottilissimo, una membrana osmotica che mette in comunicazione le varie parti. Il velo d’organza è un abito per un’opera d’arte-corpo. Il velo è quindi l’abito che veste questo corpo e che gli da voce, un’apparenza, un’identità sempre diversa, attraverso le immagini che su di esso sono realizzate, per questo non deve essere considerato come un mero supporto, ma come un determinante mezzo espressivo che concorre nel significato dell’opera. Un velo che ogni volta mostra, racconta qualcosa di diverso, ma che allo stesso tempo impone uno slancio agli osservatori che vogliono scoprire cosa vi si cela dietro. Il telaio in questo percorso si è evoluto diventando un corpo, un corpo che muta nella forma ma che resta sempre tale, un corpo che contiene al suo interno qualcosa. L’organza si adatta ai contenitori di legno delle opere tridimensionali come un abito sul corpo, assumendone le stesse caratteristiche. Contemporaneamente questa ricerca di spazio mi ha portato ad ampliare i miei progetti e ad affiancare alla realizzazione delle opere tridimensionali: performance, installazioni e video-installazioni che coniugano a quest’ultime anche suoni e video proiezioni. Il video mi ha permesso di superare il concetto di contenitore reale presente nella mia opera, acquisendo un contenitore virtuale (il video stesso), nel quale le immagini scorrono fluide, elastiche, pulsanti, vitali, leggere e semitrasparenti mantenendo così gli aspetti più tipici del mio lavoro. In questa dialettica tra contenitore-contenuto, velo-opera d’arte, abito-corpo si inserisce il tema della presenza-assenza del corpo stesso. La riscoperta delle mie sperimentazioni ha avuto per me una tale importanza che al rapporto tra arte e abito (e quindi tra opera d’arte e corpo) ho voluto dedicare nel 2006, la mia tesi di diploma a conclusione del quadriennio in Accademia, questa tesi ha ri-cucito due parti di me per troppo tempo disgiunte, scucite. Oggi, terminato il Biennio di Specializzazione in Arti Visive e Linguaggi Multimediali, ho cucito con ancora più forza opera d’arte e corpo nella tesi “Videoinstallazioni tra Corpo – Spazio – Tempo”.
Nell’installazione “La Fine del Vel(l)o d’Oro”, ho sovrapposto alla mia personale riflessione su rimpianti, resistenza e persistenza dell’industria tessile pratese, il mito del vello d’oro, attratta dall’assonanza tra le parole “vello d’oro” e “velo d’organza”, assonanza che richiama il gioco di parole (e di immagini) spesso presente nei miei lavori. La stratificazione, nel gioco della trasparenza e dell’opacità, non è solo nella scelta del materiale di supporto dell’immagine.
È una cifra caratterizzante sin dai titoli delle mie opere che spesso propongono un’ambiguità semantica indecidibile, che prosegue, poi, nel recupero della materia concettuale alla quale attingo. Un movimento di sovrapposizione in cui da un lato, c’è l’investigazione del tema: il mito, infatti, viene rivisto in rapporto all’importanza del velo d’organza nel mio percorso artistico, dall’altro c’è la contemporaneità di un vissuto che ha a che fare con l’industria della lana, memoria familiare, paesaggio visivo e sentimentale. Prato aveva come fiore all’occhiello della sua produzione il cardato: filato ottenuto dalla rigenerazione di tessuti di lana usati, per la città quindi, la lana era veramente un vello d’oro, un oggetto sacro, qualcosa da venerare perché fonte di lavoro e di benessere economico. Nel Lanificio Cocchi, che fornisce il contesto delle ambientazioni delle immagini di “La Fine del Vel(l)o d’Oro” ha lavorato mio padre fin da giovanissimo e per i successivi venti anni: il dato biografico e intimo permette l’analisi generale del tema. La fabbrica ormai chiusa da trenta anni è come fossilizzata. Non resta altro che un panno di lana abbandonato sul pavimento. Il luogo e di conseguenza le persone a esso legate sembrano tentare di resistere, cercare di restare fedeli a se stesse, inamovibili; nonostante lo scorrere deleterio del tempo, l’azione degli agenti atmosferici e la condizione di abbandono, riuscendoci, dato che sullo stabilimento non è stato effettuato alcun intervento. “La Fine del Vel(l)o d’Oro” è composta da tre elementi, due appesi alle pareti ed uno disposto a terra su di una base. Attraverso questi tre elementi, ripercorro l’epopea mitica di questo prodotto. Gli anni della produzione rappresentata dal velo d’organza fittamente ricamato a mano con filo di lurex per sottolineare il vorticoso, incessante ed alacre lavoro delle manifatture laniere. La crisi immortalata nell’elemento tridimensionale, realizzato come sono solita fare sovrapponendo ad una immagine fotografica stampata su stoffa e montata su telaio un’immagine realizzata su organza trasparente, in particolare in questo caso la sovrapposizione di due immagini perfettamente uguali acuisce l’effetto tridimensionale voluto e ricercato incessantemente nel mio lavoro. Infine la chiusura delle fabbriche, simbolicamente presentata dalla reliquia di fibra di lana e lurex, memoria da salvare, ricordo da conservare, ciò che resta di un passato grandioso e monito guida per il futuro.


Il mio lavoro permette una molteplice stratificazione di interpretazioni che, di volta in volta, privilegiano diverse componenti costitutive. Si può esaminare un’opera dal punto di vista dei materiali utilizzati, soprattutto tessuti e organza, ma anche dal punto di vista dell’immagine, o del rapporto tra questa e linguaggio. Ogni percorso interpretativo finisce per supporne un altro, così che non possa mai dirsi completamente esaurita la lettura. Il senso dell’opera d’arte, è nella stratificazione di trasparenze: la “densità” di un’opera deve consentire di intravedere quanto è l’oggetto della rappresentazione. Non deve, la rappresentazione sostituirsi all’oggetto rappresentato, essere cioè troppo densa e opaca, ma al tempo stesso non può nemmeno diventare una trasparenza pienamente penetrabile, di nessuna densità, togliendo consistenza all’opera. La rappresentazione deve lasciarsi attraversare.
Federica Gonnelli
Federica Gonnelli è nata a Firenze, dove frequenta l’Accademia di Belle Arti. Dal 2001 sviluppa una ricerca sul rapporto contenuto-contenitore, attraverso immagini alle quali sovrappone, grazie alla trasparenza dell’organza altre immagini, affiancando alla realizzazione delle opere tridimensionali anche videoinstallazioni. Dal 2003, partecipa a collettive, personali e concorsi sia in Italia sia all’estero.

2014
“REALE CALEIDOSCOPIO REALE”, “#CROSSHERITAGE”, Castello di Racconigi, Cuneo.
“GLI SPAZI DEL SOGNO”, Biffi Arte, Piacenza, a cura di A. Redaelli.
“IC – ISTANBUL CONTEMPORARY”, Galleria Art Forum Contemporary, Istanbul.
“VEL(L)O D’ORO”, Galleria Nuvole Arte Contemporanea, Montesarchio (BN), a cura di D. Papa.
“ARTE FIERA” e “IL CORPO CHE ABITO”, Galleria Art Forum Contemporary, Bologna.
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