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Felice Filippini –





 
Nel centenario della nascita, Gavardo ricordò un suo importante pittore, Felice Antonio Filippini, con una vasta mostra antologica. Pubblichiamo di seguito uno stralcio del saggio in catalogo di Enrico Giustacchini.
Filippini l’alchimista – la testimonianza è di quelle indiscutibili, giungendoci nientemeno che da Aldo Carpi -, per trovare un grigio era capace di metterci una settimana. Lui, uomo grigio per definizione – nel suo vivere quieto, cogitabondo e sottotraccia, fin nella stoffa degli abiti da impiegato che portava: antipersonaggio, lo etichetteremmo oggi -, consumava le ore ed i giorni nel chiuso di un qualche maleodorante abbaino della vecchia Milano impegnato in una silenziosa e pervicace battaglia per la verità. E la verità di Filippini era nascosta in una combinazione, la sola esatta di miliardi di combinazioni possibili tra il bianco ed il nero, ossia tra la luce e la tenebra, tra la sintesi di tutti i colori e il distillato della loro negazione. Cosicché, si sarebbe addirittura tentati di azzardare la congettura che il pittore gavardese, sacrificando giovinezza e salute sull’altare di un’immodificabile ossessione, facesse, suo malgrado, del simbolismo.
Lo stesso accadeva, è ovvio, per ogni altra cromia. Felice navigava senza requie su e giù per gli oceani di un globo che aveva le palesi sembianze della Farbenkugel di Runge. Meridiani e paralleli dipinti con l’inchiostro fuggevole ed eternamente cangiante dei toni. Questo, e questo appena, era il mondo per lui. E il colore modellava le sue nature morte. Costruiva forme, carpendole agli oggetti. Già, gli oggetti. Povere cose, di solito. Frutti, bottiglie, scatole di latta. Filippini sperimentava, instancabile, le infinite chance che la pittura gli offriva in proposito. Non sapremo mai quali sarebbero stati gli approdi, se la sorte gli fosse stata più propizia. Non sbaglieremmo di molto, crediamo, a vaticinare per lui un posto di rilievo nelle vicende del secondo Novecento italiano, né ad attribuirgli, insieme, un itinerario sempre sofferto, sempre incline alla ricerca, sempre macerato dai dubbi: che è l’itinerario, probabilmente, degli artisti più sensibili.
Il corpus di opere che ci ha consegnato, pur non vastissimo, ci permette comunque di accompagnarlo in questa sua epica sfida senza compromessi, e troppo presto interrotta.
Egli parte, ed è logico, da Cézanne, il gigante sintetizzatore. Elabora diligenti geometrie, si misura con il genio del francese, da cui nessuno, o quasi, può più prescindere. Dipinge ottimi quadri cézanniani dove qualche indizio, già, lascia intuire prossime divaricazioni.
La sua, infatti, è una quiete apparente. La burrasca è in agguato. Gli oggetti fuggono, presi nel vortice di un invisibile derapaggio. Violano i confini del supporto, slittano oltre. La composizione diventa frammentaria, come una fotografia rifilata, come un lacerto di panorama costretto entro la cornice d’una finestra. Filippini rinuncia alla centralità delle forme, ai codici di una collocazione armoniosa. Ciò che gli interessa è quel piccolo spazio rettangolare ricreato sulla tela, non un millimetro di più. Perché è quel rettangolo a contenere tutti i segreti che valga la pena di svelare.
Dopo ogni viaggio, c’è la gioia tranquillizzante del ritorno. L’artista gavardese può, mettiamo, accostare due frutti nel mezzo di un tavolo e restarsene per ore ad ascoltarli. Sì, parlano tra loro, i due, nell’idioma della luce e dei colori.
Il verde della scorza non è più lo stesso, se un lembo di tovaglia scompagina, con il suo abbacinante candore, la monotona luminosità terrosa della stanza. Trovarlo, ho da trovarlo, questo verde prima sconosciuto, e lo troverò, giura Filippini, dovessi perderci in cambio la ragione.
Talora, lo sgomento si fa strada. Sottile, micidiale. Tacciono le umili cose consuete. Per esse, il pittore invoca nuovi lemmi attraverso i quali possano, una volta di più, esprimersi. Arricchisce così il proprio microcosmo quadrilaterale di optional inattesi: un tappeto arabescato; un piatto di peltro; una zuccheriera dai manici sinuosi; estroversi ortaggi barocchi, inopinatamente restituiti in silhouette lievi e danzanti. In un quadro, almeno, osa ciò che per lui è l’inosabile. Si confronta, cioè, con la bizzosa anarchia formale dei fiori recisi: e recisi di brutto, per giunta, senza grazia, e scaraventati sul tavolo – non l’ombra d’un vaso ad accoglierli -, in un rovinio di foglie spiccate, di spampanate corolle, di boccioli pronti ad implodere.
Pure in queste parentesi angosciose, tuttavia, Filippini il timoniere regge la barra. Nel mondo che egli trascorre inesausto, lungo i sette mari figli del Dio dell’arcobaleno, tra i frastagliati arcipelaghi incombenti, manovra con sicurezza, evitando le secche. Affìdati al colore, sempre raccomanda a se stesso, e non puoi sbagliare.
Quando, ancora, si rifugia nella bonaccia relativa dei suoi provvisori porticcioli, Felice sprofonda in meditazioni più raffinate. Si convince che le cose non siano cose ma lettere, lettere di un alfabeto peculiare ed esclusivo. Sarebbe arduo valutarne gli estremi esiti pittorici prescindendo da Morandi, alla cui lezione rigorosa e incorruttibile certo egli avrà guardato con ammirazione. Sulla scia del maestro bolognese, Filippini pare votare l’immagine, per dirla con Cesare Brandi, all’abbandono di ogni perspicuità ottica, così da poterla fissare “nel flusso, improvviso ed impreciso, con cui sorge dalla coscienza”.
L’attenzione al valore spaziale si affievolisce, il pennello si intrufola nel cuore della materia svaporando atmosfere e forme e stemperandole in un unico mantello, ruvido e indefinito. Oltre queste campiture neutre e nebulose, c’è l’astrazione. Come Morandi, il Nostro si arresta, però, ad un passo dallo spartiacque. Come lui, non rinnega, mai, le fonti del dipingere; come lui ribadisce l’assoluta necessità dell’oggetto, per quanto rudimentale, per quanto destinato dall’occhio filtrante dell’artista – occhio che è insieme microscopio e telescopio – a ridursi a pura essenza, o a subire cambi vertiginosi di significato.
Perché, secondo la celebre affermazione morandiana, “non vi è nulla di più astratto del reale”. E se i veri filosofi, maghi e veggenti, fossero proprio i pittori, e ad essi fosse stato concesso il dono di comprendere la natura profonda delle cose?


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[PDF] Felice Filippini, l’alfabeto segreto delle cose

STILE Brescia 2009