Press "Enter" to skip to content

Fontanesi, il rovescio della medaglia



di Stefania Mattioli

Di recente, grazie al contributo dell’Istituto Beni culturali della Regione Emilia, è stato affidato a Cristina Arlango il restauro dell’intero corpus dei disegni di Antonio Fontanesi – in tutto una cinquantina – che Giuseppe Ricci Oddi (fondatore a Piacenza dell’omonima galleria) ha collezionato con passione a partire dal 1913. Una volta liberati dalla cornice, dieci fra questi fogli hanno rivelato una sorpresa: la presenza, sul verso, di altrettanti disegni inediti, alcuni dei quali “Stile” pubblica qui in anteprima. Della scoperta ci parla l’attuale direttore della Ricci Oddi, Stefano Fugazza.

s_5Professore, quale significato possiamo attribuire alla scoperta?
I disegni ritrovati – attribuiti al primo periodo ginevrino (1850-1855) – sono per lo più schizzi paesaggistici, impressioni rapide di uno scenario naturale (una sorta di taccuino) e costituiscono un’ulteriore conferma delle modalità di lavoro dell’artista, il quale partiva dall’osservazione diretta del vero. Un interesse aggiunto della scoperta è costituito dal fatto che quando i disegni vennero incorniciati, in previsione dell’apertura della Galleria (1930), furono fatte determinate scelte, sacrificando una facciata del foglio, con criteri che a volte sembrano comprensibili, logici (perché il disegno scelto per essere visto risulta più interessante, rifinito o “ad effetto”) mentre, in altri casi – come per “Il vascello”- appaiono poco sensati.


Quanto era importante il disegno nella concezione pittorica di Fontanesi?
Sin dagli anni giovanili della formazione nella sua città natale, Reggio Emilia, Fontanesi ricevette una solida impostazione disegnativa alla scuola del Minghetti e per tutta la vita la mantenne, insegnando anche i rudimenti del disegno secondo i principi scolastici. La sua sensibilità lo portò però a svincolarsi dalle regole accademiche, attribuendo al disegno, a volte, anche la funzione di trascrizione immediata di un’emozione. Per questo i suoi disegni spesso ci emozionano: permettono di cogliere il momento aurorale, il punto di partenza dell’ispirazione, prima che condizionamenti di vario genere vengano magari a tarpare la freschezza iniziale. E’ anche vero, comunque, che Fontanesi assegnava al disegno non soltanto l’obiettivo che si è indicato; in altri casi, realizzava disegni già ben rifiniti, connotati da molta cura nella definizione del segno, nel chiaroscuro e nella resa degli elementi compositivi.


Fontanesi ebbe anche una lunga esperienza di insegnamento presso diverse accademie, in particolare all’“Albertina” di Torino. Quale influenza ha esercitato la sua pittura sui paesaggisti piemontesi?
Davvero notevole. All’Accademia Albertina di Torino Fontanesi ebbe la cattedra di Paesaggio e, come riferiscono testimonianze concordi, fu in grado di lasciare nei discepoli un’impronta indelebile, in qualche modo determinandone il destino artistico. Marco Calderoni, Riccardo Pasquini, Carlo Stratta ci hanno raccontato delle uscite di Fontanesi e dei suoi allievi alla ricerca di motivi da dipingere in campagna. Gli allievi pare lo ascoltassero, incantati, parlare di poesia che egli “sentiva vibrare ad ogni passo per le più tenui cose per un riflesso nell’acqua, per un povero tronchino di gelso o un fanale di gas che tagliava una quinta di muro”.


Primo Levi nel 1906 lo definisce “il maggior paesaggista italiano del XIX secolo”. Se la centralità dell’opera fontanesiana nel panorama artistico europeo dell’800 è riconosciuta, quali sono le ragioni che ne hanno fatto un illustre “dimenticato”?
Fontanesi non è certo un autore facile, anzi è tra i più difficili di tutto l’800. Basta pensare alla sua esclusiva dedizione al tema del paesaggio che vede, almeno per un certo periodo, esclusa ogni concessione al pittoresco, allo scenografico o all’arcadico a vantaggio di un rigore compositivo che si nutre di una sintesi rarissima, quasi paradossale, di sensibilità romantica e di compostezza classica. Proprio “dimenticato” non lo è mai stato, ma certo non è mai divenuto veramente popolare, nonostante le mostre che, anche in anni recenti, gli sono state dedicate e nonostante l’interesse dimostrato dagli studiosi e dal mercato.




In che misura il soggiorno a Parigi del 1855 (l’incontro con l’opera di Corot, la frequentazione degli artisti di Barbizon) e quello a Londra (dove ad impressionarlo maggiormente furono Constable e Turner) hanno caratterizzato la sua pittura?
Effettivamente il soggiorno parigino fu molto importante per Fontanesi. Proprio allora si era inaugurata la famosa “Esposizione Universale” nella quale, tra l’altro, avevano finalmente trovato accoglienza le opere di Corot, Daubigny e Rousseau, con cui nasceva una modalità più immediata e diretta di rappresentazione della natura e, in generale, della realtà. Significativo fu pure l’incontro nel 1858 a Crémieu, nel Delfinato, col pittore paesista Auguste Ravier, con cui egli stabilì negli anni seguenti un vero e proprio sodalizio artistico fondato su un continuo e reciproco arricchimento. Il bisogno di aggiornamento spinse poi Fontanesi a Londra. Qui si trovò ad ammirare Turner e Constable, con cui aveva certamente dei punti in comune, anche se la sua personalissima concezione rimase lontana dal realismo dell’uno e dall’atmosfera visionaria dell’altro.


Per Fontanesi l’opera era “lo specchio dello stato dell’anima”. “Senza poesia e verità” diceva “non può esservi arte”. Viveva il paesaggio attraverso il sentimento e, interpretandolo con il pensiero, vi si abbandonava completamente alla ricerca di ciò che definiva “i valori cromatici e luminosi”. Fra tradizione e “avanguardia”, come collocare la sua poetica?
A dire il vero Fontanesi è un artista di difficile collocazione. Stabilito che il suo modo di vedere le cose è originale, intimo e personale, riesce difficile inserirlo in un preciso movimento, in un contesto culturale determinato. Il fatto è che il grande paesaggista si caratterizza per la molteplicità degli incontri culturali, che rielabora al di fuori di ogni schema, talora in maniera imprevedibile. A volte, per esempio, ci appare fin troppo classico, proteso a calcolare e bilanciare la composizione, in un gioco sottile di rispondenze, di equilibri tra le parti; in altre occasioni lo vediamo estremamente libero nel segno, capace di una gestualità pittorica che non si direbbe appartenere all’Ottocento e che difatti ci richiama alla mente, addirittura, le esperienze dell’informale. Dunque la dialettica tradizione-avanguardia convive nella produzione dell’artista, che ha un suo punto di forza proprio in questo sfuggire alle definizioni.


C’è un Fontanesi acquafortista che non è da meno del Fontanesi pittore. Anzi. Quali sono i tratti caratterizzanti della sua opera incisoria?
Delle acqueforti risalta soprattutto la completezza, una finezza curiosa per chi è abituato alla stesura tormentata delle opere su tela o cartone. E’ come se l’artista concentrasse la sua ricerca di originalità ed il suo studio nella pittura e si concedesse pause rassicuranti quando adotta le tecniche “minori” dell’incisione.