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Francesco Somaini, Fenice, 1964
Francesco Somaini, Fenice, 1964

 

di Michele De Luca

Alcune folgoranti intuizioni critiche di Giulio Carlo Argan, che leggiamo nella presentazione in catalogo di quattordici sculture in ferro e in piombo di Francesco Somaini (Lomazzo 1926 – Como 2005) esposte alla Biennale di Venezia nel 1960, hanno il dono di introdurci con chiarezza nel nucleo centrale della creatività dell’artista, allora appena trentaquattrenne, concentrandolo nella definizione della sua come “scultura del frammento”; ma non del frammento nella comune accezione di parte staccata da un originario “tutto”, con la sua natura e il suo significato ineluttabilmente indecifrabili, stante la sua impossibile e perduta “riferibilità” ad una realtà di cui era soltanto un brandello.

Francesco Somaini, Grande martirio piagato, 1960
Francesco Somaini, Grande martirio piagato, 1960

 

Qui, per Argan, si tratta “non del frammento di qualche cosa”, ma del “frammento in assoluto”, e – aggiunge – “chi volesse ricomporre il contesto dal quale quel frammento è stato strappato, non troverebbe una cosa, troverebbe lo spazio”; cioè, “lo spazio, con la sua chiara struttura, è stato in quel luogo dove ora non c’è che un grumo informale di esagitata, mal spenta materia”, il cui processo di aggregazione plastica “non è centrifugo, ma centripeto: la materia non si espande, si estrae o si deduce dallo spazio; non si dilata, precipita”.

Sul finire degli anni Cinquanta, la stagione informale in Italia ha la sua piena affermazione, e l’artista comasco è pronto a rappresentarne, in scultura, uno degli esiti più alti. Dal 1957 la sua ricerca estetica si allontana dall’astrattismo di matrice cubista e si concentra, infatti, sulla sperimentazione di materie e tecniche capaci di comunicare messaggi di forte carica esistenzialista.

Francesco Somaini, Nauta obliqua, 1960
Francesco Somaini, Nauta obliqua, 1960

Inizia disegnando, poi, nei pochi dipinti e nei “graffiti” su tavola (è nella bidimensionalità che egli sperimenta il nuovo linguaggio informale, prima ancora di elaborarlo plasticamente), puntualizza quello che sarà il suo “dizionario”, fatto di segni potenti che l’artista imprime in masse di ferro, di piombo e di bronzo, martoriandole con profonde raschiature, per sottometterle e farle divenire “forma” di tensioni e sgomenti interiori e di spinte spirituali.

Nei primi mesi del 1960, Somaini ha già raggiunto una larghissima fama internazionale, che lo accompagnerà per tutto il corso della sua vita: espone un po’ dovunque in Europa e negli Stati Uniti; successo che lo premia al culmine (ma non certo al termine, poiché questa sua felice stagione produttiva si protrarrà ancora per diversi anni) del suo periodo “informale”.

Somaini comincia la sua formazione seguendo i corsi di Giacomo Manzù a Brera; già nel 1948 esordisce alla Quadriennale di Roma, volgendosi decisamente all’astrattismo al tempo della sua adesione al Gruppo MAC Espace. Nel 1959 la sua sala alla V Biennale di San Paolo del Brasile riceve il primo premio internazionale per la scultura, “un riconoscimento inatteso – confesserà, – poiché vinto in precedenza solo da grandissimi, come Giorgio Morandi, mentre io ero il più giovane dei giovani in una delegazione che contava fior di maestri, quali Burri, Consagra, Fontana, Minguzzi, Pomodoro”.

Somaini,_Affermativa_I,_1958

Tramontata la stagione informale, le sue forme organiche sono poste in continuo rapporto dialettico con volumi geometrici di impianto architettonico e urbanistico, nella convinzione che la scultura debba svolgere un ruolo di riqualificazione della città, teorizzata insieme ad Enrico Crispolti nel libro Urgenza nella città (Mazzotta, 1972).

E’ questo un altro momento fondamentale dell’opera di Somaini, irrigata da una forte tensione etica: “Ho sempre pensato – ha detto l’artista – che il destino della scultura è quello di arricchire le piazze, oggi come ieri”; l’umanizzazione della città dovrebbe realizzarsi con lavori che si dilatano e crescono fino a diventare parte integrante del paesaggio urbano, in un progetto prefigurato di sculturizzazione del tessuto cittadino. La sua attività si viene sempre più caratterizzando nei termini di una peculiare visione del “monumentale”, aspirando, come suggerisce Crispolti, ad “attestarsi nello spazio esistenziale destinato ad accoglierla quale effettiva e determinante presenza”.

 

 

 

 

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