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Giuseppe Maraniello – Il mito delle origini e la post-avanguardia. L’intervista


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di Luigi Marsiglia

 

Borges, riprendendo in parte Lucano, Plinio il Vecchio e Dante, descrive nel suo Manuale di zoologia fantastica l’anfesibena, ossia un serpente di taglia abbastanza ridotta, dotato però di due teste e ansioso di avanzare in contemporanea nelle due direzioni opposte, così da non riuscire alla fine a compiere nessun movimento. E’ lo stesso risultato spiazzante che produce il “centauro” di Maraniello, scultura che noi riteniamo tale ma che in realtà non rappresenta assolutamente un centauro. Ed è lo stesso autore a svelarci tale arcano mitologico, che rasenta l’alchimia faustiana dell’homunculus o gli incroci stregoneschi dell’ultramoderna biogenetica.

“Proseguendo nella mia ricerca artistica, ho un po’ trovato e un po’ inventato certe simbologie che racchiudono al loro interno il tema del doppio. Perciò, quello che tutti definiscono centauro è invece un uomo che combatte contro la propria coda ed è quindi posto di spalle, con il capo rivolto all’indietro. E’ una metafora sia di conflitto che di complementarietà e non cammina affatto: è una figura statica, la cui forza interiore è impegnata ora a combattere una strenua battaglia contro se stessa”.

Dopo la spiegazione tutto appare più chiaro. “Io uso – continua lo scultore – anche altre metafore, come i gemelli oppure l’ermafrodito, il quale è dotato di entrambi i sessi ed è di per sé una figura completa. Sulla base di queste ricerche ho coniato dei titoli particolari per le mie personali (i titoli delle mie mostre sono spesso un gioco), e una l’ho dedicata proprio all’anfesibena”.

Ecco dunque la summa circoscritta dell’arte di Maraniello: la temerarietà mai sopita di penetrare nelle regioni del mito con sguardi tanto diversi da coniugare e porre in un conflitto esistenziale la radice umana, che dovrebbe costituire la ragionevolezza di noi “bipedi implumi”, con la nostra parte più crepuscolare, “bestiale”, istintuale. L’eterna lotta tra l’essere e il nulla, tra il vuoto e il pieno, la materia e lo spirito, una lotta resa qui tridimensionalmente e con fughe concettuali o addirittura surreali nell’umano, troppo umano…

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Troviamo Giuseppe Maraniello – partenopeo d’origine, milanese d’adozione – nel suo studio dove quadri, sculture e quadri/sculture (tanto per rapportarci al tema composito del doppio) preannunciano un universo artistico ricco di sfaccettature lineari e fonde, di campi di colore omogenei e discordanti che sembrano quasi proseguire nell’ambiente, nel mondo esterno.

 

Vuoi raccontarci il tuo inizio carriera?

Quando sono giunto a Milano, nel ’71, possedevo informazioni molto relative sull’arte contemporanea: all’epoca le notizie non viaggiavano certo con la velocità di oggi… Per cui nel capoluogo lombardo ho trovato una situazione a me totalmente sconosciuta. A quei tempi, post ’68, le operazioni artistiche avevano come obiettivo il rifiuto del mercato e l’assunto di dare a ciascuno la possibilità di esprimersi. Non è un caso che, fra le tante correnti nate in quegli anni, ci siano la Body art, la Land art, l’Arte concettuale, la Narrative art. Lo strumento principe, che poteva essere usato da chiunque, era la fotografia. anch’io sono partito da lì.

 

Tempi eroici, insomma…

Sicuramente. A Milano ho cominciato a frequentare artisti miei coetanei, molti dei quali praticavano la fotografia. Ho conosciuto Luciano Inga-Pin, nella cui galleria gravitavano un po’ tutti i giovani. Devo dire che in città, in quel periodo, le gallerie non erano tantissime; quelle che interessavano a noi erano tre: Inga-Pin, Franco Toselli e Françoise Lambert. Poi c’era Marconi, col quale avrei lavorato successivamente: il suo programma, però, era meno sperimentale e più consolidato, più di mercato, mentre noi volevamo portare idee nuove.

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Quand’è avvenuto il passaggio dalla fotografia alla pittura?

Dalla metà degli anni ’70, dopo la mostra Campo 10 da Inga-Pin. In verità, quasi tutti i partecipanti a quell’evento sono poi passati alla pittura: da Clemente a De Maria, a Paladino, Michele Zaza, Ontani… artisti di una generazione molto legata all’ideologia, che si è trovata in un estremo smarrimento nel momento in cui l’ideologia è venuta meno. Così ognuno è tornato alle origini, riappropriandosi degli strumenti della tradizione per continuare a dire cose nuove. Non si trattava di nostalgia o anacronismo, ma della riscoperta di un mezzo espressivo adatto per quella situazione.

 

Solo pittura o anche scultura?

Senza presunzione di sorta, devo dire di essere stato io, del gruppo che ho appena citato, a realizzare – nel 1981 – la prima scultura in bronzo: La barba, il bambino.

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E la scultura ti ha dato qualcosa in più in termini espressivi?

Questo passaggio è stato addirittura casuale. Ad un certo punto, mi sono scoperto manipolatore di materie. Ho cominciato a giocare con la creta e nel ’78 ho eseguito un’installazione per la galleria Cavellini di Brescia. Persisteva sempre in me il desiderio di creare, senza però uno scopo preciso: non avevo più gli obiettivi di una volta, ora agivo per il piacere fine a se stesso, per una forma edonistica del fare. Ho realizzato forme che all’apparenza non avevano nessun senso, per poi accorgermi che anche in ciò v’era una ragione.

Partivo insomma da un’operazione automatica a cui subentrava una partecipazione mentale, poiché provenivo da una tradizione concettuale dove il pensiero era comunque centrale, e a questo non potevo certo abdicare. Per cui mi sono interessato alla “base” di quanto stavo producendo: una forma plastica tridimensionale senza figurazione. Così in pittura, dove non c’era rappresentazione: io infatti ho usato i tre colori primari e i tre complementari come opposti.

Mi ricordo uno dei miei primi dipinti, Il diavolo è verde: nel titolo esplicavo la volontà di fare apparire l’altra parte, la parte negata… Nella fantasia collettiva il diavolo è rosso, perché allora verde? Perché questo colore è complementare del rosso, cosicché io lo considero la parte opposta, celata, che non si vede…

Come certe mie sculture, che nascondono qualcosa al loro interno, per cui esiste sempre una parte intima e preservata al di là della sfera esterna. Ecco, mi interessava questo gioco di dentro e fuori: elaboravo quadri monocromi con un taglio, un buco dal quale spuntava il colore complementare a quello adoperato sulla tela.

 

C’è stata poi la stagione dei Nuovi nuovi…

C’è stata, visto che a un certo punto qualcuno ha pensato di creare dei gruppi apponendovi un’etichetta. Per me ciò non aveva nessun senso. Nel 1980 partecipavo alla mostra di Bonito Oliva a Ravenna e, circa una settimana dopo, alla mostra di Barilli alla Gam di Bologna: Dieci anni dopo, i Nuovi nuovi. Ripeto, per me erano etichette che non rispecchiavano il nostro modo di essere; era un argomento che riguardava più la critica, o quei critici che si erano inventati un dato gruppetto. Questo apporre etichette ha provocato anche dei problemi e delle “guerre”, ma non certo tra gli artisti: io, ad esempio, sono amico sia degli esponenti della Transavanguardia che degli altri.

 

Si trattava dunque di uno specchio del mercato.

Occorrerebbe un’analisi seria delle singole personalità più che dei gruppi. In fondo, tutti noi facciamo parte di un determinato periodo, e rientriamo tutti – Nuovi nuovi, Transavanguardia, Magico Primario o Anacronisti – in una fase post-moderna.

 

Quali sono le mostre, tra le tante, che ricordi con maggior piacere?

Tra quelle che mi hanno gratificato di più, sicuramente c’è Tiro alla fune, la mostra milanese che feci nell’80 in contemporanea da Inga-Pin e all’Artra Studio. Le due gallerie erano abbastanza vicine, così in una portai tre lavori con i colori primari, nella seconda tre lavori con i colori complementari. Un pezzo “tirava” l’altro, da cui il titolo dell’iniziativa, il tutto sottolineato da un quadretto che illustrava tale rapporto. La rassegna riscosse davvero un notevole successo.

Vi sono ancora almeno due esposizioni che ritengo mi abbiano aiutato parecchio: la sala alla Biennale del ’90 e la doppia mostra del ’93 alla Galleria Civica di Trento e alla Gam Villa delle Rose di Bologna. Quest’ultima era molto ampia, partiva dalle origini per giungere alla produzione più recente. E si concludeva al secondo piano della Villa con opere completamente bianche: un bianco riferito al momento storico, che io preavvertivo come un appiattimento assoluto delle emozioni.

Le simbologie dei miei lavori restavano le stesse, avevo però tolto loro il carattere, il sangue: le emozioni, appunto. Anche lì ho avuto un grande riscontro, forse perché nessuno si attendeva, dopo tanto clamore, tanto rumore, quel bianco silenzioso che azzerava tutto il resto.