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I guadagni dei pittori del '500. Le dichiarazioni dei redditi di Raffaello, Michelangelo & co.


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di Chiara Bertoldi
Michelangelo li accumulava; Donatello, Leonardo e Raffaello li donavano, Andrea del Sarto li dilapidava, Rosso Fiorentino ne fu indirettamente vittima. Fiorini, scudi e ducati: qual era il rapporto tra il denaro ed i più grandi maestri del ’400 e ’500? Oggi le loro opere hanno valori inestimabili, ma al tempo gli artisti potevano vivere grazie alla loro arte? E perché un abito di broccato per i personaggi che frequentavano le corti poteva avere valori superiori a ricchissimi dipinti ad olio?
Lo spunto per queste riflessioni è nato dalla pubblicazione di una ricerca svolta da uno studioso americano del Rinascimento, Rab Hatfield, che si è occupato de “La ricchezza di Michelangelo”. Cinquanta milioni di euro: è questa la cifra stimata del patrimonio accumulato dall’artista tra conti correnti (tra gli altri si ricordino il deposito all’ospedale di Santa Maria Nuova e il conto presso la compagnia bancaria Calducci di Roma), fattorie, terreni e case a Firenze e dintorni. Questa stima è ovviamente grossolana perché non sappiamo quanto potrebbero valere oggi i terreni del Buonarroti, e avremmo ancora maggiori difficoltà a trasformare il valore delle monete accumulate nei conti in valori odierni. E’ pertanto una cifra indicativa. Quel che possiamo comunque affermare è che le sue sostanze erano ragguardevoli.



michelangeloTale fortuna rese Michelangelo uno degli artisti più ricchi del suo tempo, cinque volte più di Leonardo (che ebbe un rapporto estremamente fluido con il denaro, tanto da proclamarsi ricco in quanto non dipendente psicologicamente dall’oro), di Tiziano o di Raffaello. Una fortuna che tuttavia egli non riuscì mai a godere a causa del suo “carattere sospettoso, quasi paranoico”, vivendo sempre da misero, autocommiserandosi e definendosi “povero”.


Si potrebbe ricordare a tale proposito che, allorquando inviò al padre 100 ducati per permettere al fratello di acquistare una bottega, scrisse: “Io non ò denari. Questi che io vi mando me gli cavo dal cuore, e anche non mi par lecito domandarmene.” Per venire a conoscenza del patrimonio di Michelangelo sono stati presi in esame i suoi conti correnti, i suoi vari estratti conto, nonché i suoi beni immobiliari. Partendo da questi presupposti, “Stile” ha ampliato il campo di ricerca dedicando un servizio ad altri artisti del tempo e alla loro situazione economica, analizzandone i testamenti, le biografie, le testimonianze, gli atti notarili, i diari e le ricevute dei pagamenti per le loro opere.
Leonardo, la paura d’essere prigioniero del denaro
Leonardo
 
“Io non sono dipintore da quattrini”: così soleva rispondere Leonardo quando qualcuno cercava di offrirgli denaro. Evidentemente preferiva l’aspetto vocazionale dell’arte e soprattutto non intendeva, come un ottimo stoico, prestare il fianco alla dipendenza dall’accumulo. La dichiarazione con la quale abbiamo aperto questa sezione potrebbe sembrare una frase ad effetto, ma di certo il genio di Vinci non accumulò una fortuna pari a quella di Michelangelo, e ciò è testimoniato anche dal Vasari, il quale, nelle sue “Vite”, ha in più occasioni sottolineato quanto l’artista non avesse possibilità economiche: “E non avendo egli, si può dir nulla…”. Vasari sottolineò peraltro quanto Leonardo fosse “generosissimo”, tanto che “con la liberalità sua raccoglieva e pasceva ogni amico povero e ricco, purché egli avesse ingegno e virtù”.

Un atteggiamento assolutamente distaccato, nonostante la sua fama richiamasse numerosissime commissioni. E’ del resto ben noto come Leonardo avesse un’attitudine quasi maniacale nel perfezionare, studiare le sue creazioni a tal punto da non portarne a termine una buona parte. Atteggiamento, questo, lontanissimo da quello di artisti più interessati ad ottenere rapidi ed elevati riscontri economici. Nessuna tesaurizzazione, nessun accumulo. Del resto, nel suo diario, appaiono registrazioni di piccole spese – in buona parte attinenti alla quotidianità -, mentre del tutto mancanti sono le registrazioni di grandi somme. Una contabilità da attento gestore delle risorse, senza che queste annotazioni avallassero atteggiamenti egoistici. Eppure qualche sorpresa, nel rapporto psicologico tra l’artista e la gestione economica, viene riservata dalle carte leonardesche. Può essere fonte di stupore sapere che, quando gli morì la madre, alla quale egli era fortemente legato, non scrisse altro nel suo diario che le spese per il funerale. Tra i vari documenti riguardanti il maestro, il testamento risulta determinante per comprendere la scarsa attenzione alla monetizzazione. Al momento della morte, sopraggiunta quando già da tempo egli viveva in Francia ed era stato accolto come un amico dal re, le sostanze erano minime. Nel testamento, datato 23 aprile 1519, Leonardo dispose che tutti i suoi manoscritti, disegni e strumenti vari fossero consegnati al suo “caro e prediletto” allievo Francesco Melzi, mentre i dipinti (tra cui la “Gioconda”, il “San Gerolamo” e la “Sant’Anna”) che si trovavano ancora nel suo studio furono destinati all’altro discepolo, Salai. Curiosa la totale mancanza di riferimenti agli aspetti monetari, riconducibile al personale rapporto che egli aveva con l’economia. Del resto, come non sorridere di fronte alla notizia che all’allievo prediletto abbia lasciato fogli e documenti (evidentemente valutava superiore la sua opera scientifica rispetto alla produzione artistica, e Melzi, del resto, era fortemente interessato a questo campo del sapere) e non capolavori come la “Gioconda”?
Raffaello, prima l’eredità poi i remuneratissimi affreschi per il Papa
raffaello
Leonardo, che aveva vissuto fino all’età di sessantasette anni, ebbe potenzialmente molte occasioni per rimpinguare la propria economia e morì senza sostanze. Raffaello, nonostante la sua breve vita – morì a trentasette anni -, accumulò enormi ricchezze. Appena morto il padre, egli beneficiò delle rendite derivategli dal testamento dei nonni materni. Ma questo fu solo l’inizio di un percorso lastricato d’oro. Subito, infatti, acquistò grandissima fama a Roma, ricevendo numerose e importanti commissioni. Per portare a termine tutte le opere che gli venivano richieste, Raffaello organizzò una scelta équipe di collaboratori, abbracciando quindi una strada antitetica a quella percorsa da Michelangelo, il quale rifiutava qualsiasi apporto esterno. Se, da un lato, questa “politica” garantiva a Raffaello superiori entrate economiche, i suoi cantieri avevano certamente costi maggiori.
Cospicue erano infatti le retribuzioni per i numerosi aiutanti che regolarmente lavoravano per lui, circa una cinquantina. Inoltre, il maestro, secondo le testimonianze, manifestava nei loro confronti uno spirito caritatevole e gentile, non esitando ad aiutarli in molteplici occasioni. Queste, a riguardo, le parole del Vasari: “E sempre tenne infiniti in opera aiutandoli ed insegnandoli con quello amore che non ad artefici, ma a figliuoli proprii si conveniva”. E furono proprio i suoi “scolari” (tra i quali Giulio Romano) a dar vita, tra i vari lavori, agli affreschi della “Sala di Costantino”, commissionati a Raffaello nel 1517, ma realizzati solo nel 1524. Solo quest’opera costò 70mila scudi, cifra vertiginosa per il tempo. Altro interessantissimo documento risulta essere un contratto notarile, datato 11 ottobre 1507, riguardante il pagamento di 100 fiorini che il pittore doveva versare in tre soluzioni – fino a Natale – per una casa ad Urbino. Non è semplice calcolare con esattezza a quanto ammontasse questo antico “mutuo”, per la stessa ragione per cui è difficile valutare – con una precisione che ci consenta un’equivalenza monetaria con i valori di oggi – il patrimonio di Michelangelo. Al 7 luglio 1513 risale, invece, la testimonianza del compenso di 50 ducati per l’intervento alle Stanze Vaticane. Qui insorge un’ulteriore difficoltà: a quali lavori si riferivano i 50 ducati? Probabilmente ad una piccola parte delle Stanze, se è vero che, come si vedrà più avanti, Andrea del Sarto, che si accontentava di un “prezzo molto piccolo”, guadagnò la stessa somma dipingendo le “Storie di San Filippo”. Raffaello fu generoso non solo con amici e collaboratori, ma anche con alcune delle donne da lui amate. Non si dimenticò di loro neppure in punto di morte. Con il suo testamento, infatti, come ha puntualmente riportato il Vasari, “mandò l’amata sua fuor di casa e le lasciò modo di vivere onestamente”. Oltre a questa donazione, divise i suoi beni tra i discepoli (tra gli altri si ricordi Giulio Romano) ed i parenti. Inoltre ordinò che venisse restaurato un tabernacolo in Santa Maria Ritonda e che, nella stessa chiesa, si edificasse un altare affinché diventasse il suo sepolcro. Il testamento, quindi, sembra dare ulteriore conferma della grande ricchezza accumulata da Raffaello nel corso della sua pur breve esistenza e della permanente solidità economica dell’artista.
Andrea del Sarto e la moglie dilapidatrice
Ben diverso è il destino di quest’altro artista toscano, nei confronti del quale il Vasari non ha risparmiato giudizi impietosi, parlando addirittura di “male uso de’ suoi costumi.” Dal canto suo, Andrea del Sarto sembrava non dare troppo peso al denaro, e ciò è testimoniato anche dal “prezzo molto piccolo” che richiedeva come compenso. A tale proposito si è trovata testimonianza del pagamento per le cinque “Storie di San Filippo”, dipinte tra l’ottobre del 1509 e la fine del 1510: per ciascuna di queste opere, l’artista ha ricevuto 10 ducati. Oltre alla scelta di stabilire un listino economicamente contenuto, Andrea non perdeva occasione di manifestarsi molto generoso, “et a sé et a’ sui di continuo sovenendo nelle miserie.” Non navigava dunque nell’oro, ma non se ne disperava. Fino al giorno in cui si innamorò di una donna, Lucrezia di Baccio del Fede, di notevole “alterezza e superbia”, secondo il giudizio tutt’altro che clemente del Vasari. Pare che per lei il pittore abbia abbandonato gli studi dell’arte ed abbia iniziato a spendere. Non solo la donna, che nel 1518 divenne sua moglie, pretendeva per sé ingenti somme di denaro, ma ne chiedeva anche per la sua numerosa famiglia. Andrea del Sarto, nonostante questo forte legame, decise, sulla scia di Leonardo ed in anticipo su Rosso Fiorentino, di partire nel 1518 per la Francia, alla corte di Francesco I. Qui l’artista trovò i più alti riconoscimenti. Se a Firenze guadagnava dieci ducati per un affresco, solamente il ritratto del figlio del sovrano gli fruttò 300 scudi d’oro. Ciononostante, né i lauti compensi, né la considerazione del re, poterono qualcosa contro le insistenze della moglie, la quale supplicava il pittore di rientrare a Firenze. Andrea del Sarto tornò da lei, spendendo in pochi mesi tutti i suoi averi, nonché i numerosi denari donatigli da Francesco I. Non rivide più la Francia. Accettava di tanto in tanto qualche incarico, quanto bastava per riuscire a mantenersi. Questo il commento del Vasari a riguardo di tale scelta: “…da una grandezza di grado venuto a un infimo, si tratteneva e passava tempo”.



Rosso Fiorentino accusò di furto un innocente e si tolse la vita
“…e sempre per povero ch’egli fosse, fu ricco d’animo e di grandezza”. Con questa frase e con l’intera biografia dedicata a Rosso Fiorentino, il Vasari si rivela molto più clemente rispetto alla figura di Andrea del Sarto. Anche se, da un’analisi più approfondita, non sembrano le due biografie così antitetiche. Entrambi toscani, stilisticamente vicini, poveri in patria, tentarono la fortuna in Francia, conquistando entrambi immediatamente la stima di Francesco I (“Gli era [al Rosso] già venuto capriccio volere finire la sua vita in Francia e levarsi da questa miseria e povertà, perché lavorando gli uomini in Toscana e ne’ paesi dove e’ sono nati, si mantengono sempre poveri”).
Nel 1532, Rosso Fiorentino decise quindi di andare a Parigi, dove fu nominato pittore ordinario del re e già nel 1535 divenne maestro dell’opera di stucco e di pittura nella Gran Galleria di Francesco I. Questi incarichi inevitabilmente gli fruttarono molto: riceveva mille scudi d’entrata dal sovrano, nonché i rimborsi delle spese, piuttosto ingenti, sostenute per realizzare i propri lavori. Di conseguenza, rispetto a quando era in Italia, il suo stile di vita cambiò notevolmente. Si dice che abitasse in un palazzo doviziosamente fornito di tappezzerie e argenterie, circondato da servitori e cavalli. Poté inoltre avvalersi di un’équipe di artisti ed abili decoratori che lo assistevano nell’esecuzione degli affreschi e degli elaborati rilievi in stucco. Per disgrazia, proprio nel momento di maggior successo il destino gli sbarrò la strada. Gli vennero rubate alcune centinaia di scudi. Secondo le testimonianze, Rosso Fiorentino accusò di questo furto un innocente e, scoprendosi in errore, si tolse la vita. 
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