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Perchè i pittori ebrei non potevano dipingere figure? Le difficoltà di Soutine




di Luca Turelli
Soutine volle ritrarre un vecchio nella strada del villaggio ebraico in cui abitava. Il figlio dell’anziano lo affrontò con violenza, perché era stata violata la legge divina di non rappresentabilità del mondo. Tra il passato remoto, Chagall e Modigliani, il rapporto della cultura aniconica degli israeliti con il big bang del ‘900.
“Non avrai altro Dio all’infuori di me. Non fabbricarti nessun idolo e non farti nessuna immagine di quello che è in cielo, sulla terra o nelle acque sotto la terra”. Il monito compare nella Bibbia, nel libro dell’Esodo (20, 4-6), ed è rivolto dall’Altissimo a Mosè sul Sinai. Così, già tra pietre e rovi di quel sacro monte, si incrociano le strade della religione e dell’arte. La prescrizione – che impedisce, come abbiamo viso, non solo la raffigurazione della divinità, ma di tutto il Creato -. Essendo stata dettata dal Verbo divino è assunta con la funzione vincolante di legge e rispettata alla lettera dal popolo d’Israele; e ciò per l’arte ebraica sancisce, analogamente a quella islamica e ortodossa, un destino iconoclasta, divenendo elemento decorativo aniconico. Un destino capace di influenzarne a distanza di millenni il percorso creativo fino alla cesura con il passato – e la forza della rappresentazione, superato il tabù, risulta acuita – compiuta da autori di cultura israelitica come Marc Chagall (1887-1985). Amedeo Modigliani (1884-1920) e Chaïm Soutine (1893-1943).

Per Soutine il percorso di liberazione risultò particolarmente erto e non privo di gravi trauma. Chaïm venne ostacolato proprio a causa dell’antichissima prescrizione, contro la quale dovette combattere sin dall’infanzia, quando, a causa delle intemperanze del padre, che gli proibiva di dipingere, era costretto a rubare utensili da cucina per poi rivenderli ed acquistare i materiali necessari alla realizzazione dei suoi quadri. Con il tempo la situazione subì un peggioramento. Scrive Cornelia Kleyboldt: “ La sua vocazione di pittore si sviluppa sul filo di una ribellione contro la miseria in cui è nato e contro il divieto imposto dalla precettistica ebraica. Non di rado le sorelle e i fratelli lo picchiano perché disegna gente del posto. Per aver voluto raffigurare un vecchio finisce all’ospedale a seguito delle pesanti percosse ricevute, pare, dal figlio del medesimo”. L’episodio avrà. Per fortuna, un imprevedibile risvolto positivo. Il grave pestaggio segna infatti l’emancipazione di Chaïm che, sostenuto dalla madre, la quale considera eccessiva la punizione, ottiene quindici rubli di risarcimento grazie ai quali può partire per Minsk, dove trova un ambiente più tollerante e si prepara a divenire uno dei maestri dl Novecento. Se si guarda le biografie di Chagall, Modigliani (grande amico e protettore di Soutine) e di altri artisti ebrei attivi nel periodo, ci si rende conto che le costrizioni cui era soggetto Chaïm non erano condivise, da molti pittori della stessa matrice culturale, che giunsero appunto alla rappresentazione del mondo mostrando il vigore sorgivo di una fonte a lungo trattenuta da una lente di roccia e d’argilla.
Chagall trasformò la poesia del proprio villaggio ebraico, i riti, le credenze, l’integrazione dell’uomo nell’elemento naturale – filtrato dall’alito onnipresente di Dio – in un’autentica risorsa in una sorta di freschezza angelica che interloquiva con il vigore primario di colori e figure. Da qui discende un percorso artistico profondamente contrassegnato da una visione religiosa della vita, dell’infanzia e della giovinezza, di quando ventenne, appoggiato dal padre, iniziò a studiare con l’unico pittore attivo nel borgo di Vitebsk, dove Marc risiedeva.
Modigliani riempiva pagine su pagine di schizzi, tra l’ammirazione dei parenti, ed è proprio grazie alla madre che riuscì a lavorare nello studio di Guglielmo Michetti dive conobbe anche Giovanni Fattori..
Per Chagall dipingere non è un problema: la Bibbia diviene per lui sorgente di ispirazione. “Mi sembra che la Bibbia – dice – sia la principale fonte di poesia di tutti i tempi. Essa è stata l’alfabeto colorato in cui ho intinto i miei pennelli”. L’artista, inoltre, decora luoghi di culto e mentre nelle tele di Soutine, come vedremo, si intuisce la lacerazione interiore che connota sicché il colore stesso, nella torsione della forma, diventa espressione della vertigine, Marc  utilizza accordi cromatici vivaci che infondono un senso di serenità e di pace. La differenza tra loro ha origine dalla diversa educazione ricevuta dalla famiglia. Soutine si porterà appresso per tuta l’esistenza il dolore degli anni giovanili: i suoi quadri rappresentano la realtà in modo atemporale, come tragedia interiore e, forse proprio per ciò. Egli elabora un linguaggio personale, che lambisce i Fauve e l’Espressionismo. Paesaggi che ispirano emozioni intense si alternano a ritratti di gente comune, come quelli a causa dei quali veniva picchiato da adolescente. C’è un episodio che fa capire l’importanza data dall’artista alla raffigurazione del vero. Si narra che, giunto a Parigi, egli volle dipingere degli animali morti: e, per essere il più aderente possibile alla realtà, si portò alcune carcasse nell’appartamento, suscitando l’ira dei vicini che, infastiditi dal cattivo odore, chiamarono la polizia,


Ma torniamo all’antico divieto e alle relative eccezioni, che si sono manifestate nella storia dell’arte ebraica. In eta romana – anche grazie allo stretto contatto con la cultura iconica che caratterizza l’occidente latino – compaiono sui muri immagini di candelabri, dell’Arca dell’alleanza, di piante e animali, di profeti; nel Medioevo, poi, si cominciarono ad illustrare pure i codici sacri, fino ad arrivare alle influenze esercitate sui motivi iconografici del Rinascimento. Forse il precetto è stato gradualmente accantonato con il tempo? No, la dottrina non è mai mutata dalle origini, quando era giudicato peccaminoso anche guardare solo le figure incise sulle monete. E Allora? L’enigma è difficile da decifrare, come sostiene Flavio Caroli, nel suo libro ”Arte d’Oriente – Arte d’Occidente” (Electa), “Il vero mistero – scrive Caroli – deriva dal fatto che, senza negare le premesse originarie, la cultura ebraica attenua i propri divieti, permettendo immagini soprattutto di specie simbolica. E’ incredibile come una tradizione religiosa teoricamente e totalmente iconoclasta si faccia produttrice di una summa visiva così ricca, fantastica, complessa. E tutto questo accade alla civiltà ebraica senza mai negare le premesse dottrinali (iconoclastiche o aniconiche) dalle quali è partita. Tant’è che il mistero massimo tocca la nostra contemporaneità. Come mai una cultura basicamente iconoclasta è diventata una delle più poderose produttrici di immagini del XX secolo?. Chi risponderà a questa domanda risolverà uno dei quesiti più profondi e sottili della civiltà e dell’immaginazione umana”.
Un fatto, inoltre, emerge con prepotenza da tutto ciò: la forza dirompente manifestata nel Novecento dagli artisti di matrice ebraica. La loro capacità di adattarsi al mondo nel quale sono chiamati ad operare. Tutti, prima o dopo, attingono da un duplice serbatoio culturale, quello delle origini e quello della nazione in cui vivono. Da una parte la carnalità che pervade il loro lavoro, e che si ritrova anche nella Bibbia, in particolare nel Cantico dei Cantici; dall’altra la tradizione europea, che porta Chagall e Soutine ad avvicinarsi all’astrazione (figlia dell’iconoclastia, appunto), all’Espressionismo, al Cubismo, mentre Modigliani resta fedele, nonostante il passo innovatore, al realismo italiano.