di Maurizio Bernardelli Curuz
La luce come bene supremo. L’oscurità, in quanto negazione, come condizione nella quale l’uomo non solo perde di vista il mondo in cui vive – subendo così gli insulti di una navigazione caotica, priva di strumentazioni e di stelle -, ma diviene conscio dell’impossibilità di proiettare se stesso su un percorso finalistico in grado di dare un senso all’esistenza. Le storie della pittura e della letteratura testimoniano lo scontro incessante tra i due elementi, che si prospettano come situazioni simboliche per rappresentare la condizione umana.Non può sfuggirci il fatto che l’elemento luminoso sia sempre stato assunto, in ambito allegorico, come simbolo di una visione positiva del mondo, fino a giungere alla massima celebrazione in ambito illuminista come proiezione filosofica che ha l’ambizione di rischiarare il mondo attraverso la ragione intesa nell’accezione di emanazione luminosa.
Già nel passato il Dio di luce – specie nel Vangelo di Giovanni – combatteva contro le oscurità del peccato. Tra questi due termini assoluti (luce ed ombra) si colloca, a partire dal Cinquecento, una regione nuova: terre ed acque percorse da una penombra malinconica che si diffonde nelle anime come condizione dell’uomo moderno, che diverrà un topos pittorico e letterario a partire dall’epoca manierista o, comunque, nella parte terminale dei culti solari del Rinascimento. Una regione dell’anima in cui il sole non appare mai: un’alba perennemente raggelata o, meglio, il crepuscolo, luogo temporale nel quale l’uomo subisce la propria incapacità di assumere una direzione certa e di comprendere chi è, e di raffigurarsi a immagine e somiglianza di un Dio che sta in un cielo troppo alto per essere raggiunto. E’ dal cuore di questo nuovo crepuscolo che si forma il nuovo inconscio collettivo, la psiche dell’uomo moderno, travagliata dal dubbio e dall’ansia nevrotica.
“Ormai Psiche ha preso possesso della forma – scrive Giorgio Cortenova nel catalogo della mostra Il Settimo Splendore. La modernità della malinconia -, moderno tormento che si manifesta nella cangianza del colore o nelle pieghe di un un’emotività che i ritmi della ragione non riescono a contenere e a cui gli antichi ideali non possono venire in soccorso. Perché l’emozione si avvita su se stessa, specchiandosi nella propria solitudine e però rivendicandola come una dimensione che alimenta l’animo nel momento stesso in cui ne turba i rituali equilibri”.
“Ma di nuovo – prosegue – gli spazi si incupirono nella pece di un Füssli o la forma disciolse i suoi ritmi rotondi nello spazio di un Blake o nel fraseggio incredibilmente squamato della pittura di Gustave Moreau: perché questa volta fu l’equilibrio dello sguardo a crollare sotto il peso dell’interiorità malinconica che attraversava la coscienza umana e le faceva apparire inutile la percezione veloce che aveva alimentato gli impressionismi”.
“Le damine sul lungo Senna, che nemmeno i borghesi pronti a salire sul cocchio aristocratico dell’epoca avevano voluto accettare – sostiene Cortenova – furono spazzate via con i loro ombrellini e i papaveri degli orti sovrastanti Montmartre. Grande rivoluzione del linguaggio, la loro; ma adesso, mentre il secolo si avviava al tramonto, lo sguardo trasmigrava nell’interiorità visionaria della psiche e si inoltrava nei cieli enigmatici di Doré. Il becco a gas illuminava le notti blu di Henri Le Sidaner, che era già un bell’esempio di simbolismo, mentre forse egli si credeva ancora discepolo ortodosso dell’impressione retinica. I simbolismi attraversavano l’Europa, si spingevano nel cuore dell’Ile attraverso le onde magiche dell’occhio visionario di Redon, i notturni di Previati, gli interni di Bonnard, i patetismi esasperati di Tranquillo Cremona, del primo Boccioni o quelli di Sickert, le trappole sentimentali di Delvaux e quelle mentali di Magritte, o le dolcezze lunari di Licini. Altri ancora…”.
L’arte borghese, che recepiva e proponeva un gusto solare, positivista – in quanto di derivazione illuminista -, trovava come elemento oppositivo, nella società dell’epoca, l’assunzione del dubbio, dell’inquietudine e della malinconia – e ciò nel conclamato periodo della Belle époque e dei suoi dintorni attraversati da gaudiose polveri di stelle e da Balli Excelsior ottimisticamente floreali -, della sistematica contestazione delle sorti magnifiche e progressive. I nuovi artisti non intendevano viaggiare sulla superficie del mondo, ma coglierne l’alito nascosto.
Ecco allora l’accensione di quei lumi crepuscolari, i quali segnano l’avvento della crisi dell’uomo che interroga se stesso e che non può pensare che la tecnologia giunga ad essere l’elemento risolutore, in sostituzione di una visione spirituale della realtà.
“…altri ancora in un naufragio – continua Giorgio Cortenova – attraverso il quale un secolo guadava verso le rive dell’altro e vi si spingeva in profondità, nell’esperienza visionaria di un mondo stordito da quelle scienze e da quelle tecnologie che erano apparse solari e trionfanti, ma che ora si rivelano allarmanti e oscure, tanto che le alchimie e gli esoterismi, assieme alle sette antiche del pensiero, potevano offrirsi a tormento e a rifugio dell’anima: dimore di una malinconia ribelle alla manipolazione delle menti e alla loro omologazione sistematica… Altri ancora, nel tempo che ci coinvolge, quando anche il secolo nuovo sfrangiava le convinzioni prepotenti dell’ideologia, e il ‘privato’, preannunciato sul finire degli anni Sessanta, diventava davvero politico verso il traguardo del millennio e gli esordi del nuovo”.
“Mi riferisco – spiega Cortenova – a quegli orli dolenti della pittura di Irving, Petlin, ‘esule’ sui tetti di Parigi, ai ‘templari’ di Sergio Vacchi, alle malinconie di Guarienti, al gocciolare della luce nel Salon de musique di Pizzi Cannella, alla metafora mitologica di Alik Cavaliere, alle membra umide dei personaggi di Tornabuoni o ai marmi di Francesco Somaini, mentre Galliani annera di grafite la soglia dell’immagine e Gormley ‘scolpisce’ la fragilità dell’essere nella frantumata fragilità della materia”.
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