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Il teschio ed il volto nella pittura di Enzo Cucchi e nella Transavanguardia


di Roberto Gramiccia

La morte sotto la forma ricorrente di piccoli teschi o di personaggi che sembrano reduci da gironi danteschi infiltra le opere di Cucchi con puntualità non casuale. L’artista marchigiano non ha paura di essa. E’ per questo che non cede all’imperativo categorico del pensiero unico che è quello di cancellare l’idea del cupio dissolvi per annullare la coscienza del limite e quindi la capacità di rivolta. La pittura visionaria di Cucchi è inquieta per questo. Non per i colori squillanti e l’ascendenza espressionistica. Non per la solennità delle grandi superfici. Non per il rito della pittura che si perpetua.
La pittura visionaria di Enzo Cucchi è inquieta, soprattutto, perché dialoga con la morte. Perché dalla morte vede nascere la vita. E, ancora prima della vita, una resistenza vitalistica che nutre di sé le azioni di quegli uomini che provano a cambiare il mondo. Che poi questa relazione morte-vita-morte-ancora vita prenda le forme stranianti, stordite e ironiche di una imagérie fatta di cani che suonano il pianoforte, di personaggi volanti con pesci sulle spalle, di montagne appuntite con inermi omini appesi, di paesaggi sironiani, di navi ed edifici interminabili, di macrocefali guerci e di volatili rapaci, di cacciatori improbabili e ciclisti in salita, di uccelli e quadrupedi, di occhi, di gocce lacrimose e di piedi, soprattutto piedi – “perché la pittura come la scultura è in piedi che deve saper stare” -, se tutto questo accade è perché Cucchi quando comincia un quadro si fa prendere dalla pittura, non le resiste. E’ in questo abbandonarsi alla pittura come cosa “sacra” una delle caratteristiche dell’arte di Enzo Cucchi. Un abbandono che prende le forme rese possibili dall’ascolto delle storie della sua gente e della sua terra, dalle sollecitazioni del profondo, come dalla lezione dei maestri (Medardo Rosso, Fontana, Beuys i suoi preferiti) con le influenze di Carrà e De Chirico, del Surrealismo, dell’Espressionismo storico.
E’ per questo che non è necessario conoscere le leggende contadine per amare i quadri di questo pittore, così come non si deve pretendere di attribuire loro un senso univoco, perché lo scopo non è quello di rappresentare il mondo. Piuttosto è quello di ignorarlo. “Io sono laddove non penso” (Lacan). L’affermazione calza a pennello per un artista che “è”, tutto assorbendo ma nulla e nessuno imitando. I suoi quadri, le sue sculture, i suoi disegni, i suoi mosaici e i suoi affreschi “sono”, e in questo “esserci” è il loro senso.
Scrive Rudi Fuchs: “Da che l’arte astratta ha offerto un’alternativa al figurativismo tradizionale, l’arte stessa è rimasta intrappolata in una serie di sperimentazioni a ciclo continuo che costituiscono la storia inquieta dell’arte moderna. Cucchi invece – questa è la mia impressione guardando ai trent’anni della sua attività – ha deciso di dissociarsi da tale sperimentazione, come ha fatto De Chirico. Il suo obiettivo artistico è stato quello di intensificare l’immagine. E’ per questa ragione che tutte le sue opere hanno più o meno lo stesso impianto generale: uno spazio ampio simile a un paesaggio nel quale si verificano uno o due episodi figurativi, episodi che generano interruzioni vive cariche di tensione e di enigmi. La fattura delle sue grandi orchestrazioni è essenzialmente di due tipi: la pennellata è ampia e formale o breve e rapida (come capita nei suoi lavori più recenti). Qualsiasi tecnica decida di adottare, il fine dell’artista è quello di conferire all’immagine la più intensa espressività possibile in termini di forma e colore. (…) Nel suo ritirarsi dall’estenuante corsa allo stile sta la salvezza di Cucchi”.
La tensione di cui scrive Fuchs non è altro che un’affermazione di vitalità che reagisce con l’arte all’angoscia. Questa reazione si mostra anche in chi scelga linguaggi e formule più convenzionali e commerciali. Anche quando la paura si mostri proprio attraverso il suo “essere celata” dalle forme di un edonismo volgare
– anche allora – l’uomo dimostra la sua fragilità. Quando la relazione è chiara e senza infingimenti, come in Cucchi, della morte si esibisce il volto (il teschio e il resto) non per sfidarla, ma per catturare la possibilità di rinascita. E’ in questo ciclo l’unica immortalità.
Non pensate, però, detto questo, che Enzo Cucchi sia un querulo e luttuoso intellettuale: basta incontrarlo come capita non di rado nelle sale assordanti del Rialto di Roma e vederlo scatenarsi nei balli più frenetici per capire quale energia promani la sua professionale e nervosa magrezza e quale disponibilità verso il mondo esista in lui, se pur espressa nelle forme concesse da un carattere non esattamente “facile”.
Di questa energia ha beneficiato il drappello di artisti magistralmente nominato alla fine degli anni Settanta da Achille Bonito Oliva (come è noto) “Transavanguardia”. Una squadra (oltre a Cucchi, Clemente, Chia – a cui dedichiamo un servizio in questo stesso numero di Stile -, De Maria e Paladino) che seppe reagire alle sfinitezze annichilenti del minimal e del concettuale, imponendo un particolare tipo di ritorno alla pittura. Non la riedizione di stereotipi post-romantici ma, piuttosto, il libero esercizio del diritto a muoversi in tutte le direzioni. Andare e tornare e ancora andare, prendere e togliere, aggiungere e sottrarre dalle esperienze di tutti, delle Avanguardie storiche e degli altri. Di questa smania peripatetico-nomadico-ossessiva Cucchi è un campione formidabile, moderno, in un tempo che ama definirsi postmoderno. La postmodernità nel caso di Cucchi è un equivoco, perché nulla in arte si inventa e nulla si distrugge veramente. Di tale assunto egli è un nume tutelare, perché niente gli interessa di meno di essere schiavo della tradizione e niente di meno di essere schiavo del progresso.

Le opere di Enzo Cucchi qui proposte erano presenti alla mostra antologica dell’artista recentemente allestita al Museo Correr di Venezia (catalogo Skira).