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L’attenta osservazione di un dipinto del Veronese da parte di Roberto Manescalchi porta alla luce, collegato al clima dell’inchiesta che gli inquisitori aprirono a carico del pittore, un enorme pene umano dipinto tra le gambe del cane, che appare nella scena, in buona evidenza. Cane cazzone? Domeni-cane cazzone? I domenicani erano considerati i cani della fede, cioè i difensori strenui dell’ortodossia.L’episodio sul quale si fa luce svela un possibile intrigo. Perchè Veronese realizzò un’Ultima Cena affollatissima, piena di ubriachi, nani, tedeschi? Osservandola anche oggi appare subito come un’opera assolutamente eretica, considerato ciò che imponeva l’arte riformata: il pieno rispetto delle verità evangeliche, senza aggiunte immaginarie. Quindi fu cambiato il titolo del dipinto, che venne denominato Cena in casa di Levi. Ma il pene del cane passò forse inosservato. Veronese, considerati gli scontri tra i domenicani – clero di emanazione papale – e la Serenissima si prese gioco dei potenti frati, con qualche avallo governativo? Certo che anche il cane a tre zampe – e pertanto zoppo – presente in un altro dipinto potrebbe indicare, sottotraccia, il giudizio grottesco del Veronese sulla politica giudiziarista e liberticida imposta dal pontefice negli Stati stranieri, attraverso la presenza assillante dai domenicani.
di Roberto Manescalchi*
Anno Domini 1573, Addì 18 del mese di luglio che Paolo Caliari (Veronese) sia annegato nel canale dell’orfano per ordine della Santa Inquisizione! Siamo abituati ad immaginarci gli eretici arsi vivi, ma a Venezia l’inquisizione era più blanda… ne condannavano certamente meno e risparmiavano la legna per il fuoco annegandoli, chiusi in una gabbia, nel canale dell’orfano! (cfr.: foto 1)
Nel 1867 Armand Baschet pubblica nella prestigiosa Gazette des Beaux Arts: Paul Veronese appelé au Tribunal du Saint Office a Venise (1573). Aveva trovato gli atti del processo nei fondi della Cancelleria Segreta nell’ormai ex convento francescano di Santa Maria Gloriosa dei Frari già da qualche anno sede dell’Archivio generale veneto (oggi Archivio di Stato di Venezia).
Immaginiamo che il 18 di luglio del 1573, intanto che si recava dall’inquisitore, il nostro pittore… un uomo fatto di quarantacinque anni d’età (cfr.: foto 2)
al culmine della carriera e già da qualche lustro consacrato dal trio Tiziano, Aretino e Sansovino, non fosse affatto tranquillo e anzi fosse sul preoccupato andante e poi capiremo perché. Il cane di Domenico (Ordo fratrum Paedicatorum -Domeni-cani- come venivano correntemente indicati e qui, in modo particolare, vedremo come l’evocazione del cane sia più che pertinente) che presiedeva il tribunale rispondeva al nome di Aurelio Schilino da Brescia (ricoprì l’incarico dal 1569 al 1574) e fu colui che con ogni probabilità contestò al nostro alcune figure dipinte nell’Ultima cena che Veronese aveva eseguito per il cenacolo dei Domenicani della basilica dei Santi Giovanni e Paolo a Venezia. La grandiosa tela (metri 5,55 x 12,80 cfr.: foto 3) sostituì un precedente dipinto di Tiziano (perduto in un incendio del 1571) e nel 1573 era appena ultimata. Ultimata e subito contestata e posta in discussione dagli stessi committenti per bocca del loro fratello inquisitore.
Nel corso del processo si domanda ragione a Veronese del significato di alcune figure e del perché del loro inserimento nella grande tela, ma ecco di seguito l’interessantissimo e non molto lungo verbale dell’interrogatorio del nostro dove, anche se è ben intuibile… I sta per inquisitore e V sta per Veronese.
I. Sapete la causa perché siete stato costituito?
V. Signori no.
I. Potete immaginarla?
V. Immaginarla posso ben […] Il Priore di San Zuane Polo […]mi disse che era stato qui, e che Vostre Signorie Illustrissime gli avevano dato commission ch’el dovesse far far la Maddalena in luogo del can. E mi ghe resposi che volentieri averia fatto quello ed altro, per onor mio e del quadro, ma che non sentivo che tal figura della Maddalena potesse giacer che la stesse bene […]
I. In questa cena che avete fatto in San Giovanni Paulo, che significa la pittura di colui che gli esce il sangue dal naso?
V. L’ho fatto per un servo, che per qualche accidente li possa esser venuto il sangue dal naso.
I. Che significa quelli armati alla todesca vestiti, con una lambarda per uno in mano?
V.[…] Nui pittori si pigliamo licenza, che si pigliano i poeti e i matti; e ho fatto quelli dui alabardieri, uno che beve e l’altro che mangia appresso una scala morta, i quali sono messi là, che possino far qualche officio, parendomi conveniente che ‘l padron de casa, che era grande e ricco, secondo che mi è stato detto, dovesse avere tal servitori.
I. Quel vestito da buffone con il pappagallo in pugno, a che effetto l’avete dipinto in quel telaro?
V. Per ornamento, come si fa.
[…]
I. Chi credete voi veramente che si trovasse in quella cena?
V. Credo che si trovassero Cristo con i suoi apostoli. Ma se nel quadro ci avanza spazio, io l’adorno di figure, sì come vien commesso, e secondo le invenzioni. […] La commission fu di ornare il quadro secondo mi paresse […] Io faccio le pitture con quella considerazion che è conveniente, che il mio intelletto può capire.
I. Se li par conveniente che alla cena ultima del Signore si convenga dipingere buffoni, imbriaghi, todeschi, nani e simili scurrilità.
V. Signori no.
I. Perché dunque l’avete fatto?
V. L’ho fatto perché presuppongo che questi sieno fuori del luogo dove si fa la cena.
I. Non sapete voi che in Alemagna e in altri luoghi infetti di eresia sogliono con le pitture diverse e piene di scurrilità e simili invenzioni dileggiare, vituperare e fare scherno delle cose della Santa Chiesa Cattolica per insegnar mala dottrina alle genti idiote e ignoranti?
V. Signorsì, che l’è male. Ma perciò tornerò ancora a quel che ho detto, che ho l’obbligo di seguir quel che hanno fatto i miei maggiori.
I. Che hanno fatto i vostri maggiori? Hanno fatto forse cose simili?
V. Michel Agnolo in Roma drento la Cappella Pontifical. Vi è depento il nostro signor Gesù Cristo, la sua madre e san Zuane, san Piero, e la corte celeste, le quali tutte sono fatte nude, dalla Vergine Maria in poi, con atti diversi, con poca reverenza.
I. Non sapete voi che dipingendo il Giudizio Universale, nel qual non si presume vestiti, o simili cose, non occorrea dipigner veste, e in quelle figure non vi è cosa se non di spirito, e non vi sono buffoni, né cani, né arme, né simili buffonerie? E se li pare per questo o per qualsiasi altro esempio di aver fatto bene ad aver dipinto questo quadro in quel modo che sta, e se vuol difendere che il quadro stia bene e condecentemente?
V. Signor Illustrissimo, no che non lo voglio defender; ma pensava di far bene. E non ho considerato tante cose. Pensando di non far disordine niuno, tanto più che quelle figure di buffoni sono di fuora del luogo dove è il nostro Signore.
Il tutto si risolse, a seguito delle risposte date, con la condanna al nostro di mutar nome al dipinto che divenne così la Cena in Casa Levi (il nuovo titolo compare sulle cornici superiori del parapetto della scala in primo piano cfr.: fot. 4).
Il soggetto del dipinto, un episodio evangelico ambientato in uno sfarzoso banchetto della Venezia del Cinquecento, divenne così semplicemente uno di quelli già affrontati dal Caliari. Ricordiamo: Le Nozze di Cana (in duplice versione di cui una oggi al Louvre e una alla Gemäldegalerie di Dresda); La Cena in casa di Simone (addirittura in triplice versione, Pinacoteca di Brera, Galleria Sabauda di Torino e Reggia di Versailles).
Il nostro che certamente, durante l’interrogatorio sudò freddissimo che sapeva fin troppo bene di esser reo e sapeva fin troppo bene quel che aveva dipinto ma, come si può ben evincere dal verbale si giustificò invocando la libertà che in genere gli artisti, come i poeti e i matti, si prendono per dare libero sfogo ai loro voli pindarici e gli storici dell’arte ne hanno fatto, quasi in coro, il paladino della difesa della libertà d’espressione.
Oggi abbiamo guardato bene il cane in primo piano davanti alla parte centrale del tavolo del banchetto e non abbiamo potuto far a meno di pensare quanto fortunato sia stato Veronese. Nostro malgrado abbiamo dovuto scrivere un finale diverso al processo (nel titolo). Il cane ha la linguetta di fuori ed è infoiato alla mensa del Signore, ma quel che forse è anche più grave e che l’artista non gli ha messo tra le zampe un cazzo di cane… gli ha messo tra le zampe un enorme fallo dall’aspetto vagamente umano (Cfr.: fot. 5)!
Vedere per credere e non venitemi a dire che le pennellate abbiano composto per uno strano caso della sorte la forma oggi rilevata. Ora tutte le figure che l’inquisizione contestò tornano in mente ed acquisiscono, come per magia, senso compiuto e relazione tra loro, ma sta ad altri il disquisire del Veronese eretico e luterano, degli armigeri tedeschi e quant’altro. A noi basta qui aver rilevato la mostruosa presenza evocata dall’artista alla Sacra Cena che era l’ultima e non quella a casa di Levi!
Abbiamo aperto una strada e una ricognizione spedita ci ha permesso, inoltre ed in aggiunta di rilevare a Brera a Cena da Simone un cane con tre gambe (cfr.: fot. 6)
di cui ignoriamo il significato, ma che qualcosa certamente significa. Un errore che stante l’attenzione con cui il Caliari dota il cane che Cena a casa di Levi è inimmaginabile e impensabile in questo artista che, giustapposto, è Veronese e non Antonio d’Anghiari ad esempio! Più facile pensare che il cane con tre gambe sia significante e o quantomeno crediamo sia necessario provare a spiegarlo. Certo è che se i Domenicani avessero avuto contezza dei fatti e del fallo… altro che Maddalena in luogo del cane! Veronese prima avrebbe avuto certamente una bella dose di tratti di corda (gli artisti ed i critici che sono epicurei… confessano di tutto e di più al primo mezzo tratto) poi sarebbe stato sicuramente annegato. Non avremmo potuto ammirare oggi l’ultimo Veronese, quello della pittura veneziana riformata che a questo punto non sappiamo neanche se dovuta a convinzione e o suggerita da trascorso terrore. Forse, non avremmo contezza neanche di tutta quella (pittura) precedente che sicuramente rivista non sappiamo se avrebbe retto e superato esami di ortodossia. Certamente non avremmo alcuna idea della Cena a casa di Levi.
*Storico dell’arte è già autore di Veronese: The Allegory of Love by Veronese