Press "Enter" to skip to content

La città è un manifesto: è da lì che nasce l'arte del graffito urbano




Barry McGee
Negli anni Sessanta, l’arte, la cultura, lo spettacolo, l’architettura, la tecnologia, il design e la moda sono i protagonisti di un periodo intenso, dalla vitalità prorompente. I media e la tecnologia hanno contribuito alla formazione di nuovi linguaggi, massificando il consumo; così la quotidianità diventa un mito e, nel bene e nel male, anche la banalità è scambiata per genialità. E’ il momento dei giovani, dei media, degli oggetti, delle automobili, del vinile, della plastica, degli elettrodomestici e dei prodotti di lusso. Fanno tendenza le mode di strada, il cinema d’avanguardia, la musica pop, e il design spazialista: il denaro è una divinità neopagana e il consumo, la sua liturgia. Debord scrive: “La società dello spettacolo”, criticando l’obbligo della “performance” dell’uomo moderno: un vezzo dilagato in seguito al boom economico, oggi diventato un obbligo sociale. Negli anni sessanta il motto è: consumo e quindi sono.

Il corpo diventa “sociale” e il fattore più importante è l’apparenza. Parigi, Londra e New York sono le città di moda, della rivoluzione dei costumi, della cultura beat, complici i media che instillano nuovi desideri, riti e stili di vita. In questo clima euforico, le nuove generazioni più ricche rispetto alle precedenti alimentano il mercato dei prodotti industriali, poi con Warhol anche l’arte diventa mercato e il kitsch uno stile. Nell’epoca della massificazione seducono la pubblicità, la grafica, i fumetti, i fotoromanzi, i film di fantascienza, la Tv, ed anche i video e la fotografia diventano arte. Grazie ai media, i movimenti di contestazione giovanile diffondono la cultura underground in tutte le città del mondo. Dopo i post-spazialisti, continuiamo l’indagine delle avanguardie, e immergiamoci nella caotica vita urbana che pulsa di novità, travolge e genera nuovi linguaggi. Affrontiamo l’arte di strada, anche come omaggio a Mimmo Rotella, scomparso recentemente, e tra i protagonisti di quel periodo. L’artista che già nel 1954 utilizzava la tecnica del “décollage”, critica la società dello spettacolo realizzando opere con manifesti stappati dai muri. Dagli anni Cinquanta in poi la città si è teatralizzata con i manifesti, le luci delle vetrine, il rumore del traffico e defilé disordinati dei cittadini che la percorrono ogni giorno. La città riflette i ritmi della società consumistica, imprigionata da bisogni sempre più fittizi; con il movimento dei situazionisti, del Nouveau realisme e della Pop art, fino agli Archigram e Archizoom Associati, la realtà diventa un referente estetico, per farsi quindi mistificata, tecnologizzata, indicando nuovi percorsi di progettazione.

Alessandro Belgiojoso
Alessandro Belgiojoso

Dai ghetti di New York alle periferie parigine, la cultura americana multirazziale, del melting pot, si è prima diffusa a macchia d’olio e poi spettacolarizzata, grazie anche ai graffiti che narrano vissuti di anonimi in cerca di una città trasfigurata, puntando i riflettori sulle zone-ghetto: casse di risonanza di un fenomeno sociale e nello stesso tempo creativo ed emblematico. Dagli anni Sessanta la città assume una valenza comunicativa e diventa un reality show di pubblico dominio, dove inscenare e manifestare anche il disagio, la propria crisi d’identità in rapporto al territorio e alle diverse comunità e tribù etniche che la abitano. I graffiti proliferano a New York, metropoli delle contraddizioni per eccellenza, intorno alla 183.a Strada, dove alla fine degli anni Sessanta un artista (o vandalo, dipende dai punti di vista) “imbratta” i muri lasciando la firma “Taki 183”. In seguito i writers, per lo più giovanissimi membri di minoranze etniche, si sono diffusi da un capo all’altro del mondo. Nel 1972, a New York, con la prima mostra “ United Graffiti Art” questo linguaggio che nasce come provocazione frutto di un disagio sociale acquista un valore estetico. Nel decennio successivo la graffiti art è già un culto e il Bronx, come l’East Village si trasformano in invidiati centri d’avanguardia. Con l’apertura della galleria “Fashion Moda”, il graffitismo diventa mercato e la provocazione si istituzionalizza entrando nel sistema dell’arte. Nel 1983, con la mostra “Post graffiti” a New York e a Rotterdam, l’arte di strada conferma il successo internazionale e diventa trendy. Tra gli altri writers si riconoscono Crash, Daze, Dondi, Fab Five Freddie, Futura 2000, Lady Pink, Lee Quinones, Kenny Sharf e soprattutto Keith Haring e Jean-Michel Basquiat. Graffitismo e i comics hanno in comune scritte variopinte e segni fantasiosi, spiccano i “tags”, come nel caso di Haring. I writers agiscono di notte in luoghi decentrati, nelle stazioni del metrò, nelle vetture dei treni regionali e degli stessi metrò, intervenendo massicciamente sulle superfici estese delle “muraglie” che cingono aree dismesse dalle superfici estese o sulle pareti cerniera tra i quartieri restaurati e quelli lasciati all’inesorabile degrado.

Chi non ricorda il muro di Berlino, abbattuto nel 1989, come un murale variopinto di graffiti dipinti su tutta la superficie? I writers trasfigurano i luoghi vuoti, cesure tra realtà cognitive, privi di connotazione storica, come parcheggi, edifici industriali, snodi stradali, sottopassaggi delle metropolitane e delle stazioni ferroviarie, autorimesse dismesse, containers industriali o case abbandonate, “mappando ” spazi urbani con segni primitivi, sintetici, variopinti, transavanguardisti, o con personaggi ispirati ai fumetti o ai manga giapponesi. A volte tra un’icona e l’altra compaiono anche sigle monocrome, identificabili ma volutamente non riconoscibili. I graffiti come i manifesti pubblicitari hanno la stessa funzione: decorare, narrare la storia dell’evoluzione sociale e antropologica della città e del suo farsi museo della modernità. Alcuni graffiti sono epici e narrano le metamorfosi della città, come genius loci della cultura urbana, altri sono provocazioni fine a se stesse. Nelle azioni a colpi di bombolette spray di protesta dei graffitisti troviamo gesti, segni, lacerazioni e strappi, dripping, maschere grottesche o comiche ispirate ai folclori del mondo, ai fumetti, alla pubblicità: sono un sintomo del disagio sulla complessità del reale. Questi affreschi post-contemporanei ci attraggono e respingono nello stesso tempo, soprattutto per i loro colori vivacissimi dal valore simbolico ed emozionale che incantano anche gli sguardi dei fotografi, che decontestualizzandoli li elevano a soggetti estetici autoreferenziali. I graffiti sono codici che esplorano la città frammentata, incoerente, necessariamente incompiuta della quale i writers sono i trovatori post-contemporanei, “prodotti” della cultura urbana. I graffitisti agiscono nell’anonimato, non appartengono necessariamente a un territorio specifico o ad un gruppo, a un movimento, sono solitari ed individualisti, sognano di appartenere a una comunità senza sapere quale, vivendo una condizione di nomadismo perenne e transitando da un luogo metropolitano e l’altro.

I writers non firmano la loro opera con nome o cognome, ma con sigle, ideogrammi, animali o altri codici visuali per trasfigurare luoghi di una identità perduta. Un caso anomalo è Mizzi Stratolin (1973), che vive a Barcellona, dove ha fondato la “Wc Art”, scegliendo come luogo d’azione i bagni pubblici. L’altro caso anomalo di graffitismo post-contemporaneo è Alessandro Belgiojoso (1963), fotografo, flaneur dello sguardo che punta l’obiettivo su tutti i segni evolutivi della città; dai graffiti di Barcellona, agli strappi dei manifesti coreani, fino ai murales messicani, alle insegne luminose dei media building di Tokyo: la sua città è un graffito diffuso d’immagini e dell’immaginario. La città ideale è per lui spazio immaginifico che dipende anche dai luoghi iconici che si mettono a fuoco, con dettagli-puzzle di un mosaico infinito: il nuovo paesaggio urbano. In generale i writers e fotografi agiscono negli spazi urbani, creando codici visuali a “cerniera” tra la cultura della pubblicità e dei mass-media. Ricordiamo che si è graffitisti efficaci non quando si opera per scandalizzare il passante o per “épater le bourgeois”, ma quando si ha la padronanza del proprio mezzo d’espressione e si è capaci di iconizzare l’istante nel flusso carsico della vita urbana, come fanno gli artisti quando nel frammento non rappresentano il mondo ma lo evocano.