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La mano divina del falsario. Si investigano in mostra le opere di Alceo Dossena


Il vero falsario ha una personalità, non è un copista o un imitatore,
e si può prefiggere di imitare uno stile, non un’opera
Vittorio Sgarbi

In copertina: Alceo Dossena, “Catharina de Sabello” (dettaglio), anni Venti del Novecento, marmo, Fondazione Cavallini Sgarbi

A cura di Dario Del Bufalo e Marco Horak, la mostra ripercorre per la prima volta la vicenda artistica del cremonese Alceo Dossena (1878-1937), “autentico falsario”, figura tra le più affascinanti del secolo scorso, che diede vita a una ricchissima produzione di falsi di opere scultoree di età antica e rinascimentale. Tra le figure più singolari ed enigmatiche del mondo dell’arte nel Novecento, creò autentici capolavori che vennero attribuiti dagli studiosi e dai direttori di musei e gallerie di volta in volta a Giovanni e Nino Pisano, a Simone Martini, al Vecchietta, all’Amadeo, a Donatello, a Mino da Fiesole, a Desiderio da Settignano, ad Andrea del Verrocchio, ad Antonio Rossellino e ad altri celebri maestri del passato. Capace di falsificare tutti gli stili, dagli Etruschi ai contemporanei, Dossena raggiunse risultati di una qualità tale che le sue opere vennero acquistate dai più grandi musei del mondo, per il tramite di antiquari che gli suggerivano soggetti e modelli e gli fornivano, oltre al denaro, materiali e locali (tra cui il celebre studio di via Margutta).

Le sue realizzazioni possedevano un pregio che raramente si può riscontrare nelle opere di un falsario: avevano infatti la forza dell’originalità, poiché spesso non si trattava di copie di esemplari noti, ma di modelli originali creati ex novo, realizzati secondo i dettami stilistici e le tecniche esecutive dell’antichità classica, del Due-Trecento o del Rinascimento. Dossena seppe entrare nel corpo e nello spirito delle forme, mescolando suggestioni della scultura italiana più alta alla sua personale sensibilità.

Tra le mostre dello scultore cremonese organizzate in passato si ricordano quella alla Galleria Micheli di Milano, del 1929; quella di Roma, nella storica Sala Mostre di Fiamma, del 1931 e la retrospettiva del 1956, sempre a Roma nelle sale dell’Associazione della Stampa. Pur trattandosi di eventi espositivi di rilievo, è doveroso sottolineare che nessuno di questi riuscì a proporre un nucleo di opere così cospicuo e selezionato come quello che viene ora presentato al Mart di Rovereto e che costituisce, nelle intenzioni dei curatori, una rassegna espositiva destinata a lasciare un segno profondo nell’ambito degli studi sulla complessa, enigmatica e affascinante figura dello scultore cremonese. Sa da un lato la mostra, ideata dal Presidente Vittorio Sgarbi, prosegue l’indagine del Mart intorno alla relazione tra antico e contemporaneo, dall’altro lato contribuisce al dibattito sul senso dell’arte stesso e sui suoi significati, oltreché sul ruolo dei musei, suggerendo questioni di ambito squisitamente museologico. Completano il percorso espositivo due confronti con “falsi” recenti. Trovano infatti collocazione in mostra le celebri teste realizzate per protesta dallo scultore Angelo Froglia e per scherzo da Pietro Luridiana, Pier Francesco Ferrucci e Michele Ghelarducci, autori della “beffa delle false teste di Modì”.
Circa trent’anni fa, durante le ricerche di alcune sculture che una leggenda voleva fossero state gettate nel Fosso Reale di Livorno da Modigliani stesso, uno scultore e tre giovani (con motivazioni diverse) realizzano e buttarono nel fossato cittadino tre teste. Ritrovate, furono attribuite al noto artista e messe in mostra.

Il secondo confronto è con alcune opere del pittore Lino Frongia, a cui il Mart ha recentemente dedicato un Focus espositivo. In anni recenti, l’artista è stato accusato di aver realizzato e contribuito alla vendita di alcuni falsi acquistati da musei francesi. Il processo è tutt’ora in corso. La mostra è accompagnata da un prezioso catalogo pubblicato da «L’ERMA» di Bretschneider.
All’interno, oltre ai saggi dei curatori Dario Del Bufalo e Marco Horak e di Vittorio Sgarbi, sono presenti testi critici di Rodolfo Bona, Roberta Ferrazza, Andrea Baldinotti, Marco Tanzi, Emanuele Pellegrini, Romolo Magnani.

Il percorso espositivo attraverso le sezioni della mostra. La mostra ripercorre la vicenda artistica di Alceo Dossena (Cremona, 1878 – Roma, 1937), scultore dal formidabile talento imitativo, autore di numerosi capolavori attribuiti a celebri maestri del passato come Giovanni e Nicola Pisano, Donatello, Mino da Fiesole, Desiderio da Settignano, Andrea del Verrocchio, il Vecchietta.
Le opere di questo “autentico falsario” sono contraddistinte da un’eccezionale qualità, tanto da aver tratto in inganno studiosi e direttori di musei di tutto il mondo. Esse soddisfacevano la crescente richiesta di arte medioevale e rinascimentale, in particolare da parte delle grandi collezioni americane, grazie alla mediazione di antiquari che suggerivano all’artista i soggetti e i modelli più adatti, oltre a fornirgli i materiali e i locali dove svolgeva la sua attività.
Le sculture di Dossena possiedono un pregio che si riscontra raramente nel lavoro di un falsario: hanno, infatti, la forza dell’originalità in quanto modelli originali realizzati secondo lo stile e le tecniche esecutive del passato. Più rare sono, invece, le copie di opere già esistenti, come l’erma di Maria Luigia d’Asburgo, tratta da un gesso di Antonio Canova. L’atelier dell’artista, immortalato in un documentario del 1929, è idealmente rievocato nella prima sala dell’esposizione, seguita da una sezione dedicata al falso nell’arte tra Otto e Novecento e dalla più vasta selezione di opere di Alceo Dossena finora presentata al pubblico.

Tra la fine del XIX e i primi decenni del XX secolo si assiste, da un lato, alla nascita delle grandi collezioni internazionali e, dall’altro, a un profondo interesse per l’arte medioevale e rinascimentale, in particolar modo di area italiana. Lo stile del Rinascimento toscano è molto amato dall’aristocrazia europea e ancor più dai ricchi americani, i cui enormi patrimoni finanziano massicce campagne di acquisti nel nostro paese, alla ricerca di legittimazione culturale per le loro recenti fortune.
La richiesta di opere antiche è tale da favorire l’immissione sul mercato antiquario di numerosi falsi realizzati da abili artigiani, eredi della tradizione italiana delle botteghe storiche. Tra essi spiccano tre artisti dalla straordinaria abilità tecnica: Giovanni Bastianini (Camerata, Fiesole, 1830 – Firenze, 1868), autore di creazioni in stile rinascimentale come il ritratto dell’amico pittore e restauratore Gaetano Bianchi in abiti quattrocenteschi, l’allievo di Dossena Gildo Pedrazzoni (Parma, 1902 – Roma, 1974) e Icilio Federico Joni (Siena, 1866 – 1946) che nella sua autobiografia del 1932 si definì “pittore di quadri antichi”, specializzato in tavole dal fondo oro che ricalcano lo stile dei Primitivi senesi.

Alceo Dossena inizia a lavorare giovanissimo nella bottega di un marmista della sua città natale, Cremona, dopo essere stato espulso dalla Scuola d’arte a causa di uno scherzo da vero “falsario in erba”: aveva nascosto sottoterra una piccola Venere scolpita da lui e aveva rivelato di esserne l’autore solo dopo che il suo professore l’aveva dichiarata antica.
Nel 1908 Dossena si trasferisce a Parma per lavorare presso Umberto Rossi, uno scalpellino che aveva acquisito una certa fama come restauratore e copista di marmi antichi. Nel 1912 i due fondano la ditta Dossena e Rossi e a quel periodo risalgono alcune opere scolpite nello stile gotico di Benedetto Antelami.
Durante gli anni della guerra, a Roma, Alceo conosce gli antiquari Alfredo Fasoli e Alfredo Pallesi che gli commissionano decine di sculture in stile antico, riconducendole poi al finto ritrovamento di un’antica cattedrale. Molte di queste opere vengono vendute negli Stati Uniti ma intorno al 1926 cominciano a circolare i primi sospetti circa l’esistenza di un artista italiano autore di falsi greci, etruschi, gotici e rinascimentali. Lo scandalo scoppia nel 1928, quando Dossena interrompe ogni rapporto con gli antiquari e apre le porte del suo studio romano a H.W. Parsons, storico dell’arte e consulente di numerosi musei americani, mostrandogli le fotografie che documentavano tutta la sua produzione.
Da questo momento, l’artista comincia a firmare e datare i suoi lavori, alternando la creazione di opere in stile antico e altre di gusto contemporaneo. La notorietà raggiunta grazie allo scandalo gli consente di affermarsi come uno dei maggiori virtuosi della scultura ma si tratta di una fama di breve durata e, nel 1937, l’artista muore povero e dimenticato.

Alceo Dossena possedeva un’eccellente tecnica, abilità nel disegno, velocità di esecuzione e sapeva lavorare tutti i materiali scultorei: dalla creta al legno, dal gesso al marmo. La sua dote migliore, dal punto di vista artistico, era quella di riuscire a imitare uno stile piuttosto che un’opera in particolare, talvolta miscelando dettagli tratti da artisti diversi.
Ciò che rende i suoi falsi così convincenti è anche la sua capacità di trattare la materia nelle fasi di finitura, conferendo alle sculture la “patina del tempo”. Nei suoi laboratori aveva ricavato delle vasche, dove immergeva in soluzioni a base di varie sostanze coloranti le sculture in marmo non ancora rifinite e lucidate. Per favorire la penetrazione in profondità dello sporco, Dossena scaldava le pietre prima di metterle a bagno. La successiva levigatura e lucidatura eliminava la maggior parte dell’imbratto, facendo emergere lo strato sottostante, caratterizzato da una colorazione che ricordava gli effetti di secoli di sporco e fumo di candele.
Rotture e mancanze tipiche della scultura antica, inoltre, venivano create ad arte sfregiando parti del volto o ricomponendo parti precedentemente spezzate.

Un consistente nucleo di sculture di Alceo Dossena è appartenuto a Carlo Francesco Ansaldi, un avvocato toscano appassionato collezionista di opere d’arte. Trasferitosi a Roma nel 1908, Ansaldi milita nel Partito repubblicano e si distingue per i suoi numerosi articoli che rivendicano i diritti democratici negli anni in cui si afferma la dittatura fascista. Nel corso della sua vita raccoglie numerose opere di artisti della scena romana, ma la considerevole quantità di lavori di Dossena fa pensare a un rapporto privilegiato tra lo scultore e il collezionista.
Ansaldi acquista molte opere neo-quattrocentesche, come le Madonne col bambino il cui rilievo ricorda il tipico “stiacciato” di Donatello, ma anche una produzione in stile moderno, come il Ritratto di Omero dalle forme mosse e sfrangiate. La collezione Ansaldi ben documenta, infatti, quella vena creativa originale che Dossena sviluppa soprattutto negli anni Trenta, nei soggetti sacri di piccolo formato pensati per la devozione privata o nei ritratti di Giuseppe Verdi. Inoltre, grazie alla presenza di numerose opere in bronzo e terracotta, offre un ampio spettro di tecniche usate dall’artista.
Offerta allo Stato italiano dal figlio dell’avvocato Ansaldi alla metà degli anni Settanta, questa raccolta non trova collocazione nei musei della capitale e viene destinata, invece, al Museo civico di Pescia, paese natale del collezionista.

La mostra si conclude con una sezione dedicata a due esempi di “falsi autentici” che appartengono a tempi più recenti.
Nel 1984 suscita grande scalpore lo scherzo orchestrato da tre studenti di Livorno che scolpiscono una testa alla maniera di Amedeo Modigliani e la gettano nel canale cittadino, dove si diceva che l’artista avesse buttato quattro sculture che giudicava insoddisfacenti. In occasione di una mostra dedicata al celebre scultore livornese, infatti, i curatori avevano deciso di dragare il fosso alla ricerca di quelle teste leggendarie. Per giorni non avevano trovato nulla, fino a quando la burla non aveva fatto rinvenire una scultura che eminenti critici d’arte avevano giudicato autentica. Fino alla rivelazione, seguita da una dimostrazione pubblica di come gli studenti avevano scolpito la pietra servendosi di un trapano elettrico.
Per il pittore Lino Frongia le copie dall’antico sono “un esercizio di stile”. Come Dossena, Frongia unisce una grande abilità tecnica e una sorprendente capacità di immedesimarsi nelle opere dei maestri. Lo si può vedere nelle tele in mostra, tratte da dipinti di Cagnacci, Piazzetta, Raffaello, Tiziano e del fiammingo Sustris. L’artista spiega così questa sua attività mimetica: “Sono appassionato della tecnica pittorica. E, indipendentemente dal mio lavoro di ricerca, eseguo copie dai dipinti dei maestri. È una pratica nella quale il mio stile scompare. Mi spersonalizzo completamente”.

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