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Cinquecento. La pubblicità di uno sponsor ebreo tra gli affreschi della Bassa lombarda. I simboli


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“Cena in casa di Simone fariseo” , particolare
“Cena in casa di Simone fariseo” , particolare

L’abito barocco nasconde un cuore quattrocentesco che si rivela non appena varcata la soglia: la Disciplina di Remedello, un paese della Bassa lombarda, mostra subito al visitatore il suo impianto a navata unica, sobrio, con la volta a botte ribassata ornata da finti cassettoni. Vele dipinte a grottesche accompagnano il soffitto verso le pareti completamente affrescate, dove le scene della Vita e della Passione di Cristo scorrono separate da finte lesene. Uno scrigno dalle tinte delicate, che custodisce un prezioso museo archeologico.

Non è però l’architettura dell’edificio a rendere singolare questa chiesa, eretta dalla Confraternita dei Disciplini allo scadere del ’400. Così come non lo è il nome di colui che nel 1577 realizzò il ciclo di affreschi: Orazio de Rossi, terrazzano, cioè originario del luogo, secondo l’attribuzione confermata da una ricerca di Enrico Mussato in archivi parrocchiali del Mantovano e del Cremonese. Un artista minore, ma eclettico, ricco di spunti diversi che fanno pensare a contatti con opere e pittori del territorio, dal Romanino a Paolo da Caylina il Giovane, e alla conoscenza, magari mediata da copie, dei lavori di grandi maestri dell’Italia centrale. La visione d’insieme degli affreschi è di grande suggestione; la tecnica, pur nella variabilità delle soluzioni esecutive che suggerisce la presenza di mani ora esperte, ora più incerte di garzoni e allievi, ha saputo creare visi dagli sguardi molto espressivi, tocchi di luce sapienti e costruzioni prospettiche talora ben riuscite. Gli episodi della Vita e della Passione di Cristo si snodano uno accanto all’altro, con un’iconologia abbastanza tradizionale. E’ la “Cena in casa di Simone fariseo” (nella foto di apertura) ad accendere l’interesse: nella scena palesemente più curata di tutta la Disciplina, campeggiano due stelle davidiche, che incorniciano un monogramma (SA), e compaiono un cedro e foglie di palma, elementi rituali della festa ebraica di Sukkoth. Al centro della narrazione, un uomo dal copricapo ornato da una striscia gialla. Simboli ebraici in una chiesa cattolica in piena Controriforma, a pochi anni dalla chiusura del Concilio di Trento, effigiati nel momento in cui il Cardinale Carlo Borromeo imponeva controlli severissimi affinché i luoghi di culto fossero costruiti e decorati nell’osservanza dell’ortodossia cattolica: secondo i canoni stabiliti proprio nel 1577 dal suo “Instructiones Fabricae et Suppellectilis Ecclesiasticae”.
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A chi si riferiscono le iniziali S.A.? E chi è quell’uomo posto sotto la stella di David? Le ricerche di Mussato hanno portato ad identificarlo con Salomon Levi, un banchiere ebreo di Asola, importante centro del Mantovano poco distante da Remedello. Un personaggio che ricorre in centinaia di atti notarili del tempo, talmente noto e intrecciato con la vita economica della zona da essere semplicemente definito Salomon Asulae: S. A., appunto. Ed è proprio l’analisi di questi documenti che permette di respirare il clima di tolleranza e di simbiosi mutualistica nel quale vivevano comunità cristiane ed ebraiche in questa quadra della repubblica di Venezia, in quello scorcio di post-Rinascimento. Ai banchieri ebrei si rivolgevano indistintamente cittadini comuni, istituzioni civili e religiose, nobili di famiglie prestigiose, per le ragioni più diverse; e agli indispensabili ebrei erano concesse vere e proprie condotte con diritto di fenerare, cioè prestare denaro a usura, con tassi stabiliti dalla Serenissima o dagli stessi Comuni. In un’atmosfera generalmente priva delle idiosincrasie e delle ondate antisemite che emergevano invece nella contemporanea Inghilterra elisabettiana, captate da Shakespeare nel “Mercante di Venezia”, andato in scena intorno al 1596. Da una parte Shylok, il banchiere ebreo shakespeariano umiliato e privato dei suoi beni; dall’altra Salomon Levi, ritratto in una chiesa cristiana, con l’onore del tributo al proprio nome. Aveva con certezza ripetutamente prestato denaro al comune remedellese, impegnato in quel periodo anche nella costruzione della parrocchiale, e, molto probabilmente, agli stessi Disciplini per le loro opere, forse addirittura per pagare il pittore. La “Cena in casa di Simone Fariseo” è strutturata su quattro fasce orizzontali: in basso la Maddalena, ai piedi di Gesù; al di sopra, la tavola con cinque personaggi: Gesù, Simone, Salomon Levi, una figura elegante con barba e turbante (l’autore?) e un servitore.
Più su, tra due cornici parallele in aggetto, una campitura in rosso pompeiano: sulla balaustra inferiore si notano un calamaio con due penne a riposo, dei libri chiusi e un candeliere spento, probabilmente a simboleggiare le Vecchie Scritture, insieme ad un cedro (la forza) e delle mele (il peccato). Sulla stessa sporgenza, ma nella parete ortogonale della scena, un libro aperto e dei fogli bianchi: sono collocati sopra la testa del Cristo e alludono presumibilmente al Nuovo Testamento, in contrapposizione agli oggetti posti nella parte ebraica del convivio. Ed è in questa striscia rossa che compaiono le due stelle di David con il monogramma SA: una contornata da una ghirlanda di edera, appesa ad un festone di rami d’alloro (o forse di mirto, altro elemento ebraico usato nella festa di Sukkoth) e l’altra impreziosita da foglie di palma. La stanza di Simone non ha soffitto: sul cielo si staglia da una parte, sopra gli ebrei, un albero secco con rami spezzati, che ospita un gazza con una moneta nel becco (con evidente riferimento all’usura); dall’altra, sopra Gesù, invece, spicca una mensola in legno nuovo, ben piallata, che regge una sfera, forse simbolo del mondo. Nel 1580, monsignor Antonio Seneca visitò la chiesa su incarico del Borromeo, ma dalla sua relazione non risulta che egli abbia riscontrato alcuna irregolarità. E’ impensabile che non abbia scorto le stelle davidiche. A questo punto si possono strutturare varie ipotesi: la più semplice suggerisce che le stelle potrebbero essere state dipinte dopo quell’ispezione. Ma un’analisi dell’intero ciclo di affreschi pone alcuni dubbi al riguardo: tutti gli affreschi ritraggono scene d’interno, con aperture sull’esterno costituite da elementi architettonici (archi, finestre, portici), oppure ambientazioni completamente in esterno. Nella “Cena dal Fariseo” la stanza è invece scoperchiata: e al posto del soffitto, ingiustificatamente mancante, un cielo con la gazza ladra, con un significato chiaramente offensivo nei confronti degli ebrei. Se l’affresco fosse nato così, come avrebbe potuto Salomon Levi tollerare di accostare le sue iniziali ad un’immagine tanto spregiativa? Sulla tavola, poi, stranamente, non compaiono bicchieri e nella parte centrale del desco si notano dei gamberi di fiume, cosa assolutamente inverosimile per la cucina “kasher”, che ammette solo pesci con pinne e squame. Un altro ipotetico oltraggio, quindi, al banchiere ebreo. Tutto ciò suggerirebbe un’altra spiegazione: Orazio de Rossi nel 1577 dipinse una tavola imbandita con regolari bicchieri (a che cosa servirebbe, altrimenti, il servitore con la brocca?), in un ambiente dotato di soffitto, con le stelle davidiche in bella evidenza, in onore dell’ebreo asolano. Il timore della visita del Borromeo avrebbe indotto un paio d’anni più tardi i Disciplini a far modificare in parte la scena: via il soffitto (che pare infatti sparito di netto), coperto dal cielo con i simboli antiusura; dal tavolo, invece, sarebbero stati tolti i bicchieri, sostituiti dai gamberi: Salomon sta infatti mangiando del pane e la presenza del bicchiere avrebbe potuto indurre ad un richiamo blasfemo all’Eucarestia, rappresentata poco più avanti nell’Ultima Cena. Dato il pericolo di incorrere nel giudizio del tribunale dell’Inquisizione, si può ragionevolmente pensare che Salomon potesse aver accettato gli interventi cautelativi dei Disciplini senza sentirsi vilipeso.


E Salomon appare anche dietro il banco mentre versa i trenta denari al traditore
Inconsueta per l’iconografia cattolica anche la scena del tradimento di Giuda: l’Iscariota ritira i trenta denari direttamente da un banco dei pegni, dietro il quale opera lo stesso personaggio identificato come Salomon Levi. Sullo sfondo un tempietto bramantesco e in primo piano, bene in vista, libri dei conti, filze e denari. Uno scorcio di vita quotidiana di fine ‘500, nel quale l’episodio evangelico pare quasi un pretesto per inserire il banco feneratizio: forse una primitiva forma di pubblicità? Il legame del ciclo della Disciplina con gli elementi ebraici si consolida in altri due affreschi con particolari poco visibili, ma inequivocabilmente presenti. In entrambi i casi si tratta di ulteriori rappresentazioni di stelle davidiche: una sul bavero del profeta Zaccaria in un tondo della parete sinistra, molte, invece, sulla mantellina del Sacerdote Simeone nella “Presentazione di Gesù Bambino al Tempio”, sulla parete dietro l’altare. Zaccaria e Simeone, entrambi Leviti: un altro omaggio al banchiere Salomon Levi?