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Le italiche mitologie di Arian Kalari


Kalari

di Maurizio Bernardelli Curuz

 Il capitolo fondativo, l’imprinting forte e ossessivo che abbacina gli occhi del primo Arian Kalari è l’incontro con il finito-infinito michelangiolesco. Le immagine dei colossi del gran fiorentino, lo svincolarsi muscolare dei Prigioni tra materia rappresa  e ancora rattenuta nel grumo informe e scabro della pietra vergine e, d’altro lato, lo scatto, il gesto liberatorio di braccia contrapposte, tese, vibranti, possenti, irredimibili, inarrestabili nello sgusciare, con eroica sofferenza, dal nucleo duro del marmo in cui sono contenute, come se la pietra fosse un uovo magmatico di un incantamento mauvais  che li trattiene in cattività; quel gesto, insomma, contrapposto ed erculeo della vita-scultura  che cerca di sottrarsi al caos, partorendosi alla vita attraverso la forma compiuta; è quello, quello il contrappeso che Kalari fa proprio, tra fasce muscolari che consentono alle sue creature svincolarsi dalla presa titanica di una maledizione geologica, attraverso un altrettanto titanico sforzo. Forma e difforme. Allo scultore attiene la capacità di dare un senso religioso alle emanazioni del proprio blocco; di cavare dal marmo non solo un sembiante plausibile, ma un ordine che è prece, che è l’ordine della vita, nella sua iconica manifestazione.
 
Kalari si inserisce in un percorso ben sperimentato della scultura italiana classica. Ne è profondamente intriso. E se in precedenza citavamo i fulgidi esempi del non finito michelangiolesco dei Prigioni, possiamo portarne a prova sculture come Adamo ed Eva, che hanno in sé qualcosa di archeologico e di michelangiolesco, al tempo stesso; più putti invischiati da una pece cosmica, che individui adulti, che emergono dalla massa carnosa di una pietra ocra, verso la Creazione, che si traduce nella conquista, da parte del corpo, di una parte di luce e di aria.
O, ancora, nel percorso di citazione buonarrotiano, la Venere, scultura polita e scabra, al quale Kalari conferisce il contrapposto manieristico del gigante fiorentino: tensione delle braccia, ad angolo, testa piegata; avanzamento del braccio sinistro e della gamba destra, arretramento del braccio destro e della gamba sinistra, per segnare, scheletricamente, una X strutturale di rappresa potenza. Una sorta di fionda armata.
 
 
Kalari non è toscano soltanto per quelle ragioni biografico-artistiche che nel 1990, lo portarono stabilmente prima a Firenze e a Volterra, poi; ma perché da quella terra e da quella pietra egli ricava una profonda linea di continuità culturale, nella citazione di materiali archeologici o degli scalpelli rinascimentale; molte sue opere, nel rapporto tra superficie liscia e superficie scabra, rinviano a bozzetti provenienti da un sedime archeologico, come le Ombre della sera che egli trae dalla celeberrima statua di Volterra, spirituale e filiforme, nel proiettarsi in direzione del cielo; nell’accettazione stoica della notte e del ciclo della vita.
Come cipressi e ombre sommosse dalla brezza, i suoi esseri filiformi si muovono in un trasferimento caratterizzato da un intenso assetto liturgico.  Uomini e donne diretti in un punto che immaginiamo sia un luogo di preghiera. Ombre della sera che egli osserva nella matrice originaria, non transitata, cioè, attraverso il modernismo di rielaborazione di Alberto Giacometti.
 
Credo personalmente che Kalari raggiunga la massima forza nella scultura neo-archeologica, soprattutto in opere come quelle dedicate ai padri primordiali o nella Testa di pietra, sulla quale lo scalpello appena abbozza, appena suggerisce, ma con grande efficacia, la concessione di uno spolvero di fisionomia conferendo a quel volto, che guarda in direzione del cielo, una potenza che dovrebbe contrassegnare con sempre maggior peso il percorso futuro dello scultore; più assestato su una linea espressiva e meno rapsodico, secondo un concetto della scultura che spesso sfiora gli effetti piacevoli del virtuosismo, come avviene nei suoi giochi tra leggero e pesante, tra panneggio e velo, che perdono, all’apparenza, ogni peso per essere prodigiosamente spostati da un inesistente colpo di vento.
 
Questa sperimentazione porta Kalari in piĂą direzioni, come avviene nel corso dell’assaggio incessante di nuove pietre, che lo conduce, nella veste di un pellegrino, nelle principali cave d’Italia e di mezza Europa, e a flettersi, a cercare, nel dialogo con la materia e con nuove suggestioni, di offrire piĂą incursioni in diversi ambiti stilistici. SicchĂ© ne esce una citazione di Rodin, una della Scapigliatura che declina al floreale e al DĂ©co – e citiamo, a tal proposito l’alabastro della Grande Bagnante; o, ancora, il trompe l’oeil di Omaggio alla musica, una riflessione che vuole essere quella del primo violino di un’orchestra sul tavolino retrò, che ci può apparire nella forma di un lessico vicino a quello di Arman.
Il cuore più autentico di Kalari è invece fortemente, vorrei dire, quasi crudelmente, mitico; lontano dal quotidiano feriale; di un’efficacia intensa laddove affronta, con poche note di scalpello, una forma proiettandola in una dimensione d’altro luogo e d’altro tempo.
Del resto, questi suoi lavori più scabri inducono a riflettere sulle intemperanze, sulle benignità, sui sussurri, sui tuoni o sui protratti, panici silenzi dell’Olimpo, toccando territori dell’anima che attendono d’essere irrorati da un’acqua spirituale che promuove la vita e la terra, conferendo ad esse una sacralità perduta.
 
 LA BIOGRAFIA
Arian Kalari è nato a Tirana dove frequenta il liceo artistico. Partecipa a diverse mostre di scultura a livello nazionale e decide di andare oltre. Vince il concorso d’ammissione presso l’Accademia delle Belle Arti di Tirana e nel 1988 si laurea in scultura monumentale. Subito dopo insieme con altri artisti si schiera contro il sistema dittatoriale che opprime l’Albania. Costretto a lasciare la patria chiede l’asilo politico presso l’ambasciata italiana. Raggiunge l’Italia nel luglio del 1990. Arrivato in Toscana, terra del Rinascimento, si stabilisce a Firenze, dove si mette a studiare da vicino i grandi artisti. Da qui inizierà una lunga Odissea che lo porterà a contatto con i luoghi dove le pietre di diverso tipo sono estratte: Tra le varie tappe dell’artista non poteva mancare,  Pietrasanta, capitale del marmo e della scultura, Volterra nota per l’alabastro e per la pietra panchina. Poi Brescia e Iseo dove sperimenta altre pietre locali, come il marmo di Botticino e l’arenaria di Sarnico, dove troverà l’occasione per nuove creazioni e altri scambi in un percorso tra cave, sculture e mostre in varie città d’Italia, Svizzera, Belgio, Spagna, Germania. Adesso vive di nuovo a Volterra dove insegna scultura e disegno. In questo momento sta lavorando su un progetto per la sua città natale.
-Alcune opere si trovano alla Galleria Nazionale di Tirana e tante altre acquistate dai privati o enti si trovano in diversi parti d’Italia, Europa e USA-
 
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