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Achille Bonito Oliva spiega ai lettori di Stile l’arte contemporanea



di Roberta Maresci

“Stile” intervista ABO, Achille Bonito Oliva

boni31_1Nel secondo dopoguerra, l’arte divenne un prodotto linguistico di un laboratorio che solo metaforicamente rinviava all’ansia di trasformazione del mondo. Come,  si fa anima la strategia delle Avanguardie storiche?
Attraverso la chiamata alle armi delle tribù contro le comunità estetiche, autoconvocatesi dal secondo dopoguerra in poi. Attraverso anche una sperimentazione di un linguaggio non più legato specificamente a categorie (pittura o scultura), ma capace di operare mediante lo slittamento, lo sconfinamento, la contaminazione dei generi, riprendendo un’idea tipica delle Avanguardie storiche, ovvero il concetto di arte totale. Verso l’arte totale tendono molte tribù a partire dal Lettrismo con Isidore Isou nel dopoguerra, dal ’46 in avanti, negli anni Cinquanta il Situazionismo attraverso il gruppo Cobra, alla fine degli anni Cinquanta la “non-arte” Fluxus, arrivando all’Happening e altro ancora. Tutte le tribù rielaborano questo elemento di fondo, questa strategia delle Avanguardie storiche, evitando il puro laboratorio formale in cui cade molta dell’arte europea ed americana; emblematicamente questo tipo di atteggiamento trova nella Pop Art il suo linguaggio classico, direi autoreferenziato. Invece con questi artisti il linguaggio non è mai autoreferenziato. Il linguaggio è al servizio di un’idea solidale, di una pratica esistenziale, di un quotidiano affrontato attraverso materiali e oggetti: un tipico atteggiamento che già nasce nel dopoguerra, ovvero la coesistenza di generi di linguaggi e di una posizione interdisciplinare. In un’opera possono convivere insieme pittura, scultura, musica, danza, tutto. E’ proprio quel concetto di arte totale che trova nel Futurismo, nel Surrealismo, nel Dadaismo, nelle Avanguardie storiche i suoi antenati nobili.
Così trova conferma la definizione di Laurence Sterne nel suo “Viaggio sentimentale”, relativamente ai viaggiatori dello spirito pronti a sconfinare nella sperimentazione avventurosa.
Per il fatto che le comunità – naturalmente durante il Medio Evo – avevano un empito religioso, erano francescane, pauperistiche, autoflagellanti, avevano una spiritualità tellurica, forte, che rappresentava una scossa nei confronti di una società che invece cercava di darsi autosufficienza materiale. Al contrario, queste erano comunità in transito, erano viaggiatori senza bagaglio. Quindi il nomadismo, l’attraversamento geografico esisteva già allora. Adesso il nomadismo è attraversamento culturale, ma questi artisti hanno, in qualche modo, di quelle comunità lo spirito – seppur laico -, ma anche la capacità di vivere al confine il sistema dell’arte. Sono artisti che non sono mai entrati integralmente in tale sistema, rimanendo ai bordi dei musei, ai bordi delle gallerie, ai bordi del collezionismo.
Cercando di compiere una sorta di parametro matematico: meno spiritualità e più eresia stanno ai modelli medievali fioriti nel XIII secolo come i begardi agli adepti tribali?
Paragone interessante: le tribù dell’arte sono un momento di incontro tra globalizzazione e tribalizzazione, nel senso che si usa un linguaggio internazionale ma a fini espressivi, e dunque per fondare una soggettività che punta sulla differenza. Quindi le tribù sono il luogo di coesistenza delle differenze. Questa è la diversità fra tribù e branco: il branco è il gruppo omologato su un comportamento standardizzato, ripetitivo, moltiplicato, che dà conferma solo attraverso un gesto collettivo. Nelle tribù, il gesto creativo è individuale anche se usa strumenti che appartengono alla collettività.

Oltre all’erotismo vissuto come amore platonico, quali sono gli altri temi collanti del gruppo ammirabili nella mostra dedicata, appunto, alle “Tribù dell’arte”, da lei curata a Roma?
Non esistono temi, bensì un atteggiamento dipendente dalla multimedialità, dallo slittamento, dallo sconfinamento linguistico che ingloba anche lo spettatore, invitandolo a partecipare. Già – per esempio – se assisti a degli happening c’è una sincronia tra produzione del gesto estetico e sua fruizione, c’è un tempo unico in cui vivono le due parti. E pensiamo poi ad opere interattive, come quelle del gruppo Gutai, dove puoi camminare su dei sentieri di gomma, premere un campanello che produce un allarme, passare attraverso una porta lacerata, entrare in una macchina segnata. Puoi vedere situazioni che ti coinvolgono in tutti i sensi.
Tra i cinque sensi, com’è presente l’odorato?
Un’estensione del Situazionismo è il gruppo Oreste, che presenta delle derrate alimentari da destinare ad azioni future. Le derrate stanno lì, vuoi o no gli odori permeano, passano i giorni e quindi c’è un’alterazione, quindi c’è uno spazio impregnato della presenza dell’arte. Oppure pensiamo alle opere del gruppo Gutai, dove c’è il pallone di gomma, c’è la terra, ci sono elementi per cui il pubblico riscopre una tattilità, un coinvolgimento quasi infantile, polisensoriale, che determina il trend della mostra. Multimedialità espressivo-formativa dell’opera da parte dell’artista e polisensorialità come assorbimento da parte dello spettatore: questo è il trend, questa la corrispondenza, questa la specularità di un evento che ha un suo percorso dall’entrata coinvolgente nella porta lacerata, passa attraverso il Gutai, gli elementi anche aerei di acque colorate come di architetture mobili, poi scopre una dimensione altra, alta, verso l’alto (e non solo entro le pareti, come quella tradizionale), quindi c’è una testa che finalmente può girare a 360 gradi pure per lo spettatore, così come la testa dell’artista, che si è mossa in tale direzione dal dopoguerra ad oggi. E questa mostra la puoi vedere attraverso un percorso che coinvolge tutti i linguaggi, tutte le categorie, dalla pittura alla scultura, al sonoro, alla musica, al corpo, alla fotografia, al video, alla letteratura: è come una breccia entro cui in fila indiana lo spettatore può entrare o uscire, non è uno spazio “autoritario” ma uno spazio permeante, coinvolgente. Si tratta, insomma, di una sorta di mostra in progress che tra l’altro è divisa in due parti, su cui è possibile ritornare, sviluppare un processo di conoscenza ma anche di piacere, di edonismo… In qualche modo, è una mostra finalmente non vietata ai minori.


E i minori come reagiscono?
Benissimo. Molti genitori portano i loro figli, anzi, alla fine, secondo me, spesso sono i figli che accompagnano i genitori. Trovo che la mostra sia stata accettata assai bene, finanche dalla polizia. Spencer Tunick, artista americano nella sezione Happening, ha realizzato la sua performance facendo spogliare all’alba – alle sei del mattino, senza spettatori – due-trecento ragazzi, facendoli distendere nudi e fotografandoli. La foto è diventata l’opera, con questi corpi modulari ma diversi tra loro, in una posizione che non è mai pornografica perché non c’è contatto fisico. Bene, Tunick ha trovato la polizia sul posto, il commissario ha chiamato in questura, la questura ha dato l’autorizzazione. Tutto ciò è anche un segno di evoluzione dei costumi, non solo sociale nel senso più stretto della parola ma in quello, più largo, che coinvolge il buongusto. (STILE ARTE, 01.06.2001)

 

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