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L'incantevole talento pittorico di Sofonisba e Lucia Anguissola



Un’unica matrice: una capacità non comune di leggere in filigrana la vita di tutti i giorni e di rendere evidente, nei ritratti, i moti dell’anima. “La grande Anguissola e le sue sorelle sono le prime pittrici importanti dell’era moderna?” chiede Lodovico Festa a Flavio Caroli nel libro Tutti i volti dell’arte, uscito per i tipi della Mondadori. “Senza dubbio – risponde Caroli -. Anzi, sono le prime in assoluto. E forse quella che aveva più talento era Lucia, che però morì giovanissima. Il suo ritratto della sorella Europa si trova a Brescia, nella Pinacoteca Tosio Martinengo, e dà la dimensione della qualità sottilissima (da vera e propria ‘poetessa della debolezza’) di Lucia. Pur con le sue poche opere, si colloca nel novero dei grandi ritrattisti degli umili e dei vinti: da Lotto a Savoldo a Romanino a un’altra grande pittrice, Fede Galizia”.

Caroli sostiene l’assoluta qualità dell’espressione pittorica, non legata a un semplice primato nel campo dell’“altra metà del cielo. Sono, infatti, artisti di grandi qualità, di valore universale, ma espressione di quello che si chiama con una parola un po’ logorata ‘specifico femminile’. Lo ‘specifico’ che si può cogliere nelle loro opere è questione di sensibilità, di temi familiari, ma soprattutto di profondità. Il peso di questo ‘specifico’ è dimostrato anche dalle qualità di un’altra pittrice, sempre lombarda ma non cremonese come le Anguissola: Fede Galizia. Lei pure è artista dotata di una sensibilità particolare, che non è sbagliato definire femminile. E’ uno dei grandi pittori di nature morte. In una chiave molto moderna (basti pensare alla pittura di Giorgio Morandi), la Galizia delega gli oggetti a rappresentare il suo mondo interiore, attraverso una meditazione formale rigorosissima, con virtuosismi nell’uso della luce”. “Siamo in presenza – continua Flavio Caroli – di un’artista eccelsa tout court. Milanese, figlia di un minatore trentino, la sua pittura è sottile, scavata, ma ferma e innovativa. Le nature morte diventano soggetti di quadri solo alla fine del Cinquecento, prima se ne stanno in secondo piano nel dipinto. Un po’ come i paesaggi, che, allo stesso modo, nel medesimo periodo storico, passano da comprimari a protagonisti. A un certo punto, il soggetto tradizionale del dipinto, la figura umana, scompare, e la scena viene occupata da campi, da foreste, oppure da cesti di frutta, di cibo il più vario.
C’è una serie di dipinti di Vincenzo Campi degli anni Ottanta del Cinquecento nei quali il processo sta per completarsi: la scena è quasi interamente stipata di cesti di frutta e verdure, con le figure umane tenute rigorosamente in secondo piano. Ma presenti. Fede Galizia, invece, è tra i primi a dipingere nature morte pure, e forse non è estraneo a questa scelta il peso di quello che abbiamo chiamato lo ‘specifico femminile’. Prima di lei, nella storia della natura morta, c’è Ambrogio Figino, con un dipinto eseguito fra il 1593 e il 1594, e c’è la magnifica Fiscella (oggi alla Pinacoteca Ambrosiana) di Caravaggio del 1598-99. Poi, una natura morta dello spagnolo Sánchez Cotán, del 1602, è perfettamente contemporanea alla prima natura morta datata della Galizia: il che conferma la straordinaria importanza della pittrice”. “Sofonisba – sostiene Lodovico Festa – era molto famosa nel suo tempo: non per nulla è citata nelle Vite di Giorgio Vasari”. “Sì. Era assai famosa – concorda Caroli -. E naturalmente, per questo fine, essere presente nelle pagine delle Vite era essenziale. Le biografie del Vasari decidevano la fama o meno di un artista. E non era facile riuscire a essere tra i biografati, soprattutto per un artista lombardo. Vasari chiamava così tutti quelli che stavano oltre gli Appennini, da Bologna in su. O si era toscani, dunque bravi, o lombardi, dunque mediocri. Ma il suo artista di riferimento, il grande Michelangelo Buonarroti, gli aveva detto che Sofonisba aveva talento.


E lo storico dell’arte se n’era andato fino a Cremona, non solo per lei, ma anche per lei. Di quei tempi, una faticaccia”. “Era stato il padre di Anguissola (la figlia lo dipinge come un omone con un che di contadinesco) – prosegue lo studioso – a scrivere a Michelangelo, e a mandargli i disegni della figlia. Fra quei disegni, c’era anche un Fanciullo morso da un granchio, nel quale la giovanissima artista cremonese – poco più che ventenne – aveva colto l’espressione del dolore infantile, con un’invenzione che piacque particolarmente al grande artista fiorentino. Quella smorfia di dolore fermata da Sofonisba, la ritroviamo poi nel Fanciullo morso da un ramarro di Caravaggio. Incredibilmente, il disegno di una ragazza cremonese diventa l’unico ponte esistenziale fra i due giganti che fondano la pittura moderna, Michelangelo Buonarroti e Michelangelo Merisi da Caravaggio”. “Gli esordi di Sofonisba – aggiunge Flavio Caroli – sono quelli di una giovane figlia della piccola nobiltà, ma dotata di visione e di gusto sicuri. In poco tempo la cremonese diventa una star. I nobili milanesi desiderano un ritratto di sua mano. Filippo II, re di Spagna, le chiede di trasferirsi a Madrid, dove diventa dama di compagnia della regina, e continua a dipingere. Poi la regina muore, e lei sposa Fabrizio Moncada, un nobile che vive a Palermo. Muore anche lui, ucciso durante un attacco di pirati al largo dell’isola di Capri. Sofonisba parte in nave per ritornare a Cremona. Ma, in viaggio, si innamora del nobile capitano genovese Orazio Lomellini, che sposa contro la volontà delle famiglie. Vive fino a novant’anni. Poco prima di morire, conosce il giovane e frizzantino Van Dyck, che la ritrae, e scrive di aver imparato più da questa vecchia signora quasi cieca che da tutti i pittori suoi contemporanei, perché lei gli ha insegnato a dare le luci dall’alto, non dal basso, per nascondere le rughe. Impagabile tocco di vanità femminile”.
Ma qual è la storia di questa famiglia di autentiche virtuose? Facciamo un passo indietro, all’origine, quando il nobile cremonese Amilcare Anguissola, membro del Consiglio dei Decurioni, che governava Cremona per conto dell’impero spagnolo, sposa nel 1531, in seconde nozze, Bianca Ponzoni. Tra la fine del Quattrocento e gli inizi del Cinquecento emerse un nuovo modo di considerare il ruolo femminile. L’importanza assunta nelle corti da autentiche regnanti – tra le quali ricordiamo, esempio fulgido, Isabella d’Este, vero motore dello Stato mantovano -, la promozione della cultura svolta da donne sensibili portarono indubbiamente un vento nuovo tra le classi dominanti dell’epoca. Bianca – che aveva dato alla luce Sofonisba nel 1532, primogenita di sette fratelli – aveva particolarmente a cuore la formazione culturale dei figli. La posizione e le conoscenze della sua famiglia d’origine e di quella del marito consentirono di tessere una rete finalizzata alla promozione dei ragazzi. Si dice che Sofonisba avesse maturato sin da piccola la passione per la pittura, seguendo il papà che aveva il compito di scegliere gli artisti per decorare la chiesa di San Sigismondo. Sofonisba e la sorella Elena furono così mandate a lezione da Bernardino Campi, noto anche per la grande qualità di ritrattista. Era proprio attraverso il lavoro sul ritratto che il padre di famiglia pensava di garantire un futuro alle figlie, giacché l’aristocrazia dell’epoca ne faceva un’ampia richiesta. Un’attività che, collegata al lavoro di diplomazia – giacché, pensava il padre, pur sempre le ragazze si sarebbero presentate come appartenenti alla nobiltà cremonese -, avrebbe consentito alla famiglia di compiere un passo avanti in ambito sociale. E così fu per Sofonisba, che frequentò la corte spagnola. Oltre alla primogenita e a Lucia, si dedicarono alla pittura anche le sorelle Europa ed Anna Maria.
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[PDF] L’incantevole talento di Lucia


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