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Rae Martini – L’uomo che firmava i treni


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intervista di Giovanna Galli

Abbiamo intervistato il milanese Rae Martini, esponente di spicco di quella cultura artistica nata dalle esperienze del writing internazionale, che oggi viene annoverata tra le diverse anime della cosiddetta Street Art italiana. Forte di un’esperienza ventennale ad altissimi livelli, è considerato un’autentica “leggenda vivente” del capitolo europeo del graffitismo. Da lungo tempo egli è anche protagonista di una ricerca pittorica che fonde elementi “graffiti style” con la sperimentazione materica.

Cosa pensi, per cominciare, del fenomeno Street Art italiano, sempre che secondo te abbia senso dare una definizione localistica di un movimento che ha, tra le sue peculiarità, proprio il fatto di essere fortemente proiettato in una dimensione mediatica globale?
Premetto che la tipologia di artisti a cui sento di appartenere è quella dei writer, che dopo aver dipinto illegalmente per strada fino a raggiungere un background di una certa consistenza, hanno poi o contemporaneamente portato sulla tela la propria sensibilità artistica.
La Street Art è una tendenza molto differente dal writing, sia a livello tecnico che concettuale, e racchiude tutto quello che riguarda stencil, poster e sticker.
E’ indispensabile fare le dovute distinzioni, comunque se con Street Art si vuole intendere tutto ciò che di creativo proviene dalla strada, penso che sia importante che finalmente pure nel nostro Paese si sia cominciato a prendere atto del fatto che il contesto urbano abbia generato un nuovo capitolo dell’arte contemporanea; anche se ciò avviene con un notevole ritardo rispetto a molti altri Paesi del mondo, nei quali alcuni dei protagonisti e pionieri della cultura del writing mondiale sono da tempo stati “consacrati” artisti e “sdoganati” verso il mercato.
Bisogna dire che il fascino di questa cultura risiede in gran parte nel fatto che gli artisti che l’hanno generata sono stati attivi illegalmente negli spazi pubblici, venendo ricercati, arrestati o colpevolizzati per anni. Io personalmente ho dipinto per strada per molto tempo rischiando addirittura la vita e subendo denunce, senza sentire il bisogno che qualcuno riconoscesse il mio “essere artista”. Ero spinto unicamente dalla mia missione: dipingere, anche se il mondo cercava di fermarmi in tutti i modi. Questo è sicuramente un atto di amore estremo verso i propri ideali, cultura e arte.
E’ essenziale per un artista “street” avere appunto un background reale, ossia un percorso illegale e creativo sviluppatosi nel contesto urbano: in mancanza di questo si rischia di incappare in gente che “sfrutta” la corrente e la cultura senza mai averne fatto veramente parte. In Italia ci sono alcuni artisti che hanno un ottimo percorso alle spalle e che ora ottengono buoni risultati anche su tela; questo mi rende orgoglioso perché dimostra ancora una volta al mondo che la strada e la cultura del writing hanno reso possibile lo scrivere una nuova pagina nella storia dell’arte.

Proviamo a ripercorrere le tappe della tua crescita artistica: agli inizi era il graffito. Cosa spinge un giovane a imprimere il proprio nome sui muri della sua città? E come questo primo impulso acquista col tempo il senso di una vera e propria ispirazione artistica?
Più che il “graffito” (termine che preferisco sostituire con “pezzo”, dall’inglese “piece”), all’inizio era il nome che poi diviene firma, detta anche “tag”. La cultura del writing newyorkese, con i capolavori realizzati dai maestri caposcuola: Phase 2, Dondi, Kase 2, Noc 167, Sharp, Jon One, Rammellzee, Futura 2000 e molti altri, è stata la mia ispirazione; ho studiato l’evoluzione del lettering mirata all’esecuzione illegale dei wildstyle su treno. Quindi dalla semplice firma ad un colore, sono passato alla stessa firma evoluta sotto tutti gli aspetti: quantità di colori, dimensioni, leggibilità, dinamismo, ornamenti, virtuosismo stilistico nella scrittura, media a cui viene applicata.
Sono stato affascinato dai pezzi dei writer milanesi che avevano iniziato prima di me e che vedevo nel mio quartiere, Lambrate, una specie di piccola New York. Cominciai a scrivere anch’io, conobbi i primi maestri che mi fecero scuola in merito alla cultura, ne fui rapito definitivamente. E più disegnavo, più dipingevo, più vedevo i miei errori e studiavo per migliorare, non mi sono mai fermato. Dipingere era un bisogno irrinunciabile per me.
Dieci anni dopo, quando stavo seduto su una panchina di una stazione a vedere sfilare i miei burner sui treni, ero colpito dall’energia dei pezzi, cresciuta esponenzialmente rispetto ai primi giorni. Niente nella mia vita è paragonabile a quella sensazione. E’ stata la mia droga per quasi vent’anni, ora riesco a controllarmi, a quei tempi non c’era bisogno di farlo, il writing era (ed è tutt’ora) la migliore cosa che mi fosse capitata nella vita, stavamo bene insieme. Il mio amore per quelle grosse lettere colorate è rimasto nel tempo sempre uguale, e sono passati quasi vent’anni. Amo questa cultura più di quanto sia mai riuscito ad amare una donna o me stesso.

Come è avvenuto per te, a livello intimo, emotivo, il passaggio dalla realtà urbana, con le sue implicazioni più spinte e trasgressive, come le azioni illegali, a quella dello studio, dal graffito vero e proprio alla creazione pittorica?
Ho iniziato a dipingere tele quasi da subito, semplicemente perché studiavo molto su carta e la tela era un supporto che mi permetteva di “fissare” i miei studi in una maniera esteticamente più completa di quanto potesse avvenire su un foglio di carta.
Inoltre ero venuto a conoscenza del fatto che già molti maestri americani e italiani nel campo del writing dipingevano lettering su tela oltre che su treni, quindi il supporto della tela mi incuriosì sin da subito. Chiaramente non dipingevo tele pensando che un giorno sarebbero potute diventare l’essenza della mia vita; con molta umiltà e dedizione mi esercitavo, su carta, treni, muri e in più piccola parte tele. Il passaggio quindi è avvenuto in modo abbastanza naturale, a conferma del fatto che nel writing sia necessaria una grossa componente di studio. Col passare degli anni ho attraversato diversi periodi pittorici in cui la componente stradale era più o meno presente in differenti maniere; in altri periodi la lettera e gli studi connessi ad essa erano completamente assenti. A livello emotivo, il mio atteggiamento nei confronti della pittura è variato a seconda dei periodi.

E dal punto di vista tecnico, in che modo l’esperienza maturata in tanti anni di attività di strada confluisce nelle tue opere?
Attualmente, confluisce tecnicamente nelle opere nel momento in cui sono presenti cenni e flashback dell’attività stradale. In alcuni quadri inserisco delle strutture portanti di lettere, attorno a cui ruota tutta la dinamica della materia. In altre opere i Throw ups che si intravedono tra gli strati materici e gli interventi pittorici devono avere una linea molto cruda, molto istintiva, come se fossero stati eseguiti in situazioni di alto rischio, perché è proprio quel mood che voglio trasmettere.
Nel periodo attuale, la mia esperienza stradale gioca un ruolo determinante più a livello concettuale ed emozionale che tecnico, mentre nel primo periodo lo aveva dal punto di vista prettamente tecnico.

Osservando i tuoi lavori è impossibile non riconoscervi la stratificazione di tante esperienze dell’avanguardia novecentesca, dall’Espressionismo astratto d’Oltreoceano alla nostra Arte Povera. Quali sono gli artisti a cui guardi o hai guardato in passato con maggiore interesse e verso i quali senti di nutrire un debito intellettuale, ancor prima che formale?
Nel dettaglio, i primi artisti a cui mi sono ispirato sono senza dubbio i king delle subway newyorkesi e i maestri italiani del writing: grazie a Phase 2 ho visto che era possibile portare l’evoluzione della lettera ad un livello superiore; da Kase 2 ho appreso lo stile meccanico e l’evoluzione del Computer Rock; Zpyder 7 mi ha ispirato a tenere una linea molto cruda e sporca nei miei wildstyle e a tagliare le strutture; Dondi aveva semplicemente un tocco magico nel lettering e nel suo flow, da lui ho imparato che si potevano ottenere alti livelli di lettering anche senza comprometterne la leggibilità, così come faceva anche Shad; Rammellzee mi ha ispirato molto a livello intellettuale con le sue equazioni applicate ai lettering; in Sky:4, Solow e Drop:C ho visto e studiato il miglior Bars’n Arrows che sia mai esistito.
Queste sono alcune tra le prime persone verso cui nutro un debito intellettuale e i cui lavori hanno contribuito alla mia formazione. Mi sono applicato nella pratica e nello studio con una grande energia, alimentata dalla carica che mi trasmettevano i pezzi dei maestri. Per quanto concerne la pittura, sono un autodidatta proveniente dalla strada: i depositi dei treni e i tunnel della metro hanno formato l’anima da cui scaturisce la mia produzione pittorica. Quindi, quello che dipingo non è il risultato di nozioni, ma di ciò che ho appreso dalla vita e dalle esperienze che ho fatto. La strada consente che l’istinto non venga contaminato; ho sempre seguito il mio istinto a livello pittorico, ed è sempre stato esso a determinare che cosa avevo bisogno di dipingere.
Ho iniziato ad applicarmi allo studio e alla pratica dell’arte a undici-dodici anni. Nel periodo in cui dipingevo i treni ero esaltato dal Futurismo perché avevo notato che molte dinamiche tecniche della scomposizione dell’immagine in movimento potevano essere applicate anche alle lettere: le dinamiche di Balla e Boccioni, le architetture di Sant’Elia. Nel 1991 scoprii Pollock, ne rimasi colpito. Nutro poi un forte debito intellettuale verso la cultura orientale, verso il Taoismo che mi ha accompagnato per diversi anni e mi accompagna tuttora, verso la calligrafia cinese e giapponese che è stata per me una grossa fonte di ispirazione, così come verso Paolo Barrile, colui che negli anni Novanta mi fece scoprire la pittura materica quando mi mostrò alcuni dei quadri che aveva dipinto negli anni Settanta.
Da quel momento nel mio animo si mosse qualcosa e cominciai a documentarmi approfonditamente sui grandi pittori. Alcuni nomi che sento umilmente di dover citare con devozione come componenti della mia ispirazione sono Kline, Pollock, Picasso, Burri, Afro, Barrile, Rotella, Schifano, Vedova, Pedretti, Rauschenberg, Mathieu, Tomlin, Da Silva, Congdon, Duchamp, Hartung, Tápies, Basquiat.