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Mammamia che emozione… estetica!


di Giorgio Cortenova

Cortenova, già docente di Storia dell’arte moderna e contemporanea all’Accademia delle Belle arti di Bologna, dal 1985 è direttore di ruolo della Galleria comunale d’arte moderna di Palazzo Forti a Verona, dove ha ideato e creato diverse mostre di grande spessore culturale. Tra le molte pubblicazioni, ricordiamo Pablo Picasso: la vita e l’opera, edita in cinque lingue. Attualmente collabora, con scritti di critica, con il Corriere della Sera.

023XPOIl più astratto dei surrealisti è stato senza dubbio Miró. Resta il fatto che sempre Miró è stato il più surrealista degli astratti. Ma insomma, queste sono terminologie di rito, e al di là delle nomenclature l’artista catalano fu un poeta del colore e della terra che si avviava come mai prima a baciare il cielo, l’aria, lo spazio.
Miró è già tutto racchiuso in un piccolo e prezioso quadro della giovinezza, La fattoria del 1921-22, dove si “racconta” di un’aia, di una casa rappresentata in termini coscientemente infantili, e poi il verde del prato, forte, squillante e struggente, e una scaletta che conduce al granaio. Mentre il cielo è terso e silenzioso. La tela fu iniziata a Montroig, continuata a Barcellona e finita a Parigi. Nel tempo quest’opera è diventata relativamente famosa, ma non è altrettanto noto il fatto che quel piccolo capolavoro entrò appunto nella valigia dell’artista in partenza per Parigi. Né tutti sanno che in quella valigia Miró ripose anche una zolla d’erba, tanto per condurre con sé il profumo della terra di casa, in cui forse il cielo continuava a specchiarsi.
L’avventura di Miró comincia da lì, ed è un peccato che la mostra al Palazzo dei Diamanti di Ferrara (fino al 25 maggio) esordisca in parete con opere del 1922-23, altrettanto interessanti ma meno incisive, senza nulla togliere al merito dei curatori per avere allestito una sequenza visiva di grande fascino. Comunque sia, quella scaletta, quel cielo, quell’ossigenazione, che da terra proviene ma si sviluppa nello spazio delle stelle e delle lune, sono una toccante metafora dei suoi sentimenti e della poesia pittorica in cui l’artista riesce a tradurli. Per tutta la vita egli frantuma, disperde, di nuovo raggruppa e ricongiunge le schegge di un mondo che vive in maniera inconscia e che si manifesta in una sorta di vertigine onirica, capace di sconvolgere non poche convinzioni teoriche e creative degli anni ’20 e ’30 del secolo appena finito.
Nel clima parigino all’alba degli anni ’20, c’era chi mostrava ormai un’accesa insofferenza per quelle nature morte, quelle chitarre e mandolini che saturavano il panorama del secondo cubismo o cubismo sintetico, come dir si voglia. Ma a frantumare quei legni ben sagomati ci penserà proprio Miró. Masson ne riferisce una frase piuttosto significativa a Jacques Dupin: “Spaccherò io la loro chitarra!”. Detto fatto.
Picasso se ne accorse subito: lo studiò a lungo, ne spiò i ritmi, inseguì quelle schegge e quegli stilemi di una forma ormai disseminata nello spazio “aperto” della tela. Non ci fu verso di venirne a capo. Tanto Miró meravigliosamente alleggeriva le sue “virgole”, tanto più s’inerpicava sulla sua scala, con le schegge di terra negli spazi ritmati dal sogno, quanto più Picasso stupendamente ricadeva all’interno delle sue forme problematiche. Nel 1925 dipinge La danza: come, se non danzando, le sue forme potevano perdere peso e intensità materica? L’opera è un “disastro” decorativo, per quanto può essere detta disastrosa un’opera del grande Pablo.
Allora decide di assorbire il ritmo delle linee “aperte” di Miró in opere come L’Atelier della modista, del ’26, o nella tensione drammatica della Crocefissione, del ’30, ma ne nasce una “stanza” chiusa nel supplizio, un capolavoro il cui linguaggio s’indirizza esattamente all’opposto delle “fioriture” spaziali del collega. Il tema della scala, nell’arte di Picasso, può condurre al sogno, ma solo per catturarlo e ricondurlo a terra. Oppure è scala di patibolo, di una vita in cui si annida tenebrosa la morte. I gradini della scala di Miró sono invece in diretto contatto con costellazioni di segni in cui si rinnovano e s’inseguono piogge di meteore e di misteriose “scritture”.
Insomma non c’è verso: quando s’infrange, la forma di Picasso diventa “tumultuosa”, come aveva intuito Breton davanti alle Demoiselles: tumultuosa come la tragedia, come la “révolte” straziante del subconscio, come la libertà vietata dalla necessità che il male e il bene continuino a contrapporsi. Mammamia mammamia, com’era fortunato Miró che aveva ridotto il male ad una nota solo apparentemente stonata!

Enigmi metafisici che scivolano via dai silenzi, dalle solitudini malinconiche inaugurate dai simbolismi di fine Ottocento ed approdate nel XX secolo dietro le tende scure degli oracoli dechirichiani. Ma già negli anni ’70 Bernard Faucon, un vero maestro della fotografia europea, anticipa tutto e tutti: gli enigmi diventano di gruppo, appartengono a schiere di “mannequins” adolescenti che si sporgono dall’alto di un universo quotidiano che più non sembra appartenere allo spirito. I giovani di Bernard Faucon, in mostra alla Galleria “Paci Arte” di Brescia (fino al
19 aprile), hanno occhi tondi e sbarrati, fotograficamente ritagliati in volti anonimi e tuttavia ribelli. Perciò la sua è quasi una fantascienza del quotidiano, se quotidiano è il rito di riunirsi, di tenersi stretti gli uni agli altri, eppure gli uni agli altri assolutamente estranei, nella lontananza di un dialogo o comunque di una parola assente.
E’ questa la metafisica fantascientifica affiorata dalle macerie del Novecento: l’“infanta-fisica” dei senza padre, dei corpi lindi e tuttavia consunti o solo apparentemente torniti nella bellezza neoclassica di cui mantengono un ricordo assolutamente intellettuale. L’“infanta-fisica” che oggi accomuna, nei diversi esiti formali, le modelle-bambine dai pubi intonsi di Vanessa Beecroft, le eroine e le macchine volanti di Pippilotti Rist.
Sono questi e altri ancora, che tracciano percorsi inusuali, gli artisti capaci di esprimere nuovi universi “infanta-fisici”, in cui la rivolta è in agguato: una rivolta asettica, bella/bellina, che uccide senza sangue, “pulita/pulitina”, e senza fare rumore: altrimenti i fantasmi del 2000 si svegliano e diventano cattivi/cattivi.

Il moderno: un incubo senza speranza e un tormento tenebroso nei chiaroscuri di un artista come Sironi, il miglior interprete europeo di quella “necessità” rimbaudiana tradita dalla storia e che da responsabilità morale era diventata un ordine ideologico capace di affondare la giovinezza negata dall’ideologia nei gironi infernali del quotidiano. Quella giovinezza sottratta e consumata nei destini funerei della battaglia, riaffiora nella pittura di Sironi come una perdita, un’assenza, una ferita mai più rimarginabile, al di là di chi vi aveva creduto o di chi ne aveva sottolineato la tragedia.
A disastro in atto e ad ecatombe in via di compimento, la pittura di Sironi si alza su tutte come un incubo che incalza l’animo, lo corrode e lo dissecca: e quanta più materia si condensa nei volti, nei corpi, nei tizzoni neri del paesaggio urbano, tanto più quei pigmenti sembrano urlare una propria colpa, il sinistro rumore del rimorso, l’incubo di una modernità senza futuro. Una mostra intelligente, curata con sensibilità e competenza da Claudia Gianferrari alle “Stelline” di Milano (fino al 25 maggio), uno spazio che merita sempre più attenzione.

A Parigi, alla “Fondation Cartier”, visito la mostra di Lee Bul allestita a cavallo del vecchio anno e di quello in corso. La mostra ha fascino, ti avvolge e, nel vortice delle sensazioni, ti conduce in una sorta di penombra dell’anima. La donna mia a fianco segue la sua pista di visita e incrocia con me sguardi e silenzi di emozione. Ecco, se di evento estetico e di relativa emozione si deve parlare, qui siamo in un tempio efficace e “professionale”.
Lee Bul conosce infatti tutti i termini della fascinazione, adesso che sembra avere abbandonato, almeno per il momento, quelli dello scandalo traumatico.
Lee Bul ci sussurra “incantevole”, “vibrante”, “utopico”, morbido”; ma io intendo “torbido” e m’inchiodo lì, su quel “torbido” che ti trascina nella sensualità di un’architettura di perle, cristalli, filamenti, alla fin fine “lampadari” che ci conducono ad una specie di urna/sudario/specchio, che rilancia nello spazio un inno di vita e un de profundis di morte, insieme congiunti nella cascata di riflessi che qua e là si aggrappano a quello Spazio Cartier che solo Jean Nouvel ha potuto così magistralmente concepire.
Nel 1997, per il Museum of Modern Art di New York, Lee Bul aveva “confezionato” un’installazione di pesci morti ornati di paillettes. La puzza inevitabile aveva obbligato i responsabili del museo a chiudere la mostra. Sentii Harald Szeemann assolutamente infuriato, e subito, da curatore pronto alla battaglia per la libertà dell’arte, la fece replicare: pesce fresco per l’emozione estetica… L’anno dopo Lee raggiunge la celebrità con i suoi ormai famosi Cyborgs, nientemeno che ibridazioni di macchine ed esseri viventi, che, nel 1999, ancora Szeemann espone in dAPERTutto, alla Biennale di Venezia.
Ormai Lee ha scelto la squisitezza come ritmo di una danza formale che avvolge e commuove. Torbidamente sublime.

Dunque l’emozione estetica trionfa sulla forma come emozione artistica? Be’, è indubbio che ha guadagnato una maggioranza relativa piuttosto consistente e per certi versi preoccupante. Hanno vinto Matisse e Miró, e Picasso è all’angolo. Se non fosse che la forma come problema del mondo torna ad affiorare dagli spifferi di un pianeta schiacciato tra globalità ed omologazione, superficialità ed indifferenza. E dai e dai con l’emozione estetica, che infine, di tante ali di farfalle a disposizione, ti ritrovi in mano ciprie pallide e dorate, indizi di un teatro barocco travasato nei limiti angusti del Barocchetto. E all’uscio dell’arte potrebbe tornare a battere la forma.