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Mantegna utilizzava oro e colla per impreziosire le “sculture dipinte”


statuadorata1Pittura e scultura. Da sempre due modi completamente diversi di rappresentare la realtà che ora, tra la prima e la seconda metà del Quattrocento, vengono più intensamente in contatto.
A Padova, nella bottega di Francesco Squarcione entrano raffinati marmi ellenici, recuperati nel corso di complicate spedizioni in Grecia, che serviranno da modello per i quadri degli allievi, tra cui si distingue per destrezza un ancor giovane Mantegna. Dalla pietra alla tela. Andrea appare subito colpito da questo connubio tanto che, ammirato dalle sculture realizzate da Donatello durante il suo lungo soggiorno padovano, tenta di emularne i risultati in pittura. Da qui ha origine la visione statuaria dei corpi e dei volti, che diventerà la summa artistica di Mantegna.



Ciò trova particolare riscontro in alcune opere quali la Madonna della tenerezza (la sfida pittorica con lo Squarcione di cui Stile si è già ampiamente occupato negli scorsi numeri), Giuditta con la testa di Oloferne e Didone. In particolare le ultime due opere citate sono caratterizzate da un aspetto talmente particolare da renderle uniche nel loro genere. L’artista crea due sculture (ma con i pennelli anziché con lo scalpello), che vogliono imitare non il marmo, o più in generale la fredda pietra, ma il bronzo.


E il risultato è tale che, come è descritto nel catalogo Skira dedicato alla mostra Mantegna a Mantova 1460-1506, “l’imitazione del bronzo è talmente perfetta da dare veramente la sensazione di trovarsi di fronte ad un bassorilievo dorato, montato contro lastre di verde africano”. Ciò dà l’impressione che sulla tela siano stati inseriti pezzi reali, tridimensionali. Come è stato possibile raggiungere un tale risultato? Applicando il colore con tempera a colla e oro su tela.
Il calore, la brillantezza, la profondità e il forte effetto chiaroscurale sono infatti donati dalla presenza del prezioso metallo tra le setole dei pennelli.