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Marte Morselli, il metafisico, da Modena alla vita in Franciacorta





Un’attenzione straordinaria, fotografica, ai volti, secondo un gusto per il ritratto che recuperava i colori della tradizione pittorica italiana – come se nulla fosse passato, in pittura, nei termini dell’avanguardia – consegnando gli effigiati a una dimensione mitica, a una rappresentazione da gran parata. Marte Morselli, ritrattista che maturò una certa fama tra i maggiori circoli dell’aristocrazia internazionale e che venne adottato, come pittore di palazzo, anche da alcune nobili famiglie bresciane, fu ben altro e ben di più dell’uomo delle effigi, nonostante quelle sue prove, al limite di un virtuosismo iperrealista, siano tuttora fonte di stupore per le capacità tecniche espresse e per l’abilità nel sondare, con una levità mai invasiva, i moti dell’anima. Morselli rivela se stesso, con maggior intensità, nei paesaggi metafisici, specie quelli dell’ultimo periodo nel quale, sciolto l’assillo della committenza, l’artista poteva vagabondare nei propri territori mitici, che erano poi quelli delineati a partire da Puvis de Chavanne, Moreau e, sul fronte italiano, da Segantini, fino ai mari mitologici dei Dioscuri, cioè dei fratelli De Chirico, lambendo il filone metafisico e surrealista che sbocca direttamente dalle parti dell’Olimpo.

Nato nel 1907 da una famiglia contadina, a Santa Caterina, in provincia di Modena, Morselli aveva lasciato, in seguito allo sfollamento del 1942, la sua terra natale per trasferirsi in Franciacorta, tra Erbusco e Rovato. Questi furono comunque i luoghi di partenza per un’attività internazionale, condotta quasi esclusivamente nel campo del ritratto. Nonostante avesse poi proposto, con successo, i dipinti d’altro genere in diverse mostre – delle quali resta traccia in una discreta bibliografia critica – Morselli, che fu uomo schivo, non riuscì ad imporre il proprio segno ad un pubblico ampio, né coltivare una rete di collezionisti che fosse, nel tempo, garante della futura memoria, condizione, questa, indispensabile alla diffusione del messaggio pittorico e alla circolazione dei dipinti. Sicché, svoltati gli anni Settanta – Morselli morì nel 1978 -, le opere dell’artista franciacortino restarono consegnate alle case per le quali erano nate, senza che uscissero – come meritamente dovevano – da una ristretta cerchia di estimatori. Il vasto corpus del suo lavoro costituisce, del resto, la solida e coerente testimonianza di un intenso amore per la pittura e per la figurazione, che diveniva un linguaggio proibito nell’Italia della provocazione, proprio nel momento in cui i nuovi sistemi d’espressione, prima sulla linea dell’astratto e poi della pop-art, lasciavano pochi spazi alla linea della “chiara visione” di cui egli fu portatore. Ritratti, paesaggi, nature morte, opere sacre: Morselli ha affrontato questi generi, dimostrando di essere in grado di mutare rapidamente registro senza per questo perdere la cifra della propria personalità artistica. Si rivelò – contro ogni atteggiamento monocorde – in grado di cambiare sia i carichi della pennellata che gli accordi della tavolozza, conoscendo perfettamente le divisioni tradizionali della pittura.

Se soprattutto dai ritratti trapela un’attentissima, minuziosa aderenza al vero, dalle opere di “paesaggio mitico” preme una vena sulfurea, in molti casi assegnata a una narrazione condotta attraverso una sorta di scrittura automatica, come dettata da visione oracolare, assecondata da un frenetico movimento delle masse. I valori eterni, rappresentati dagli archetipi, sono, nei dipinti di Morselli, sempre contrassegnati da una forte energia pittorica, e ciò in contrasto con la pulizia estrema raggiunta nei ritratti, all’interno dei quali s’avverte sempre uno sforzo di contenimento della libertà interpretativa, raggiunta soltanto attraverso l’esposizione dell’inclinazione caratteriale dell’effigiato. Egli vede comunque, in continuità rispetto a una visione mitologica del reale, i suoi soggetti come divinità collocate sulla linea del Novecento. Le personalità ritratte da Morselli – dal barone Bernard de L’Escaille alla diva del cinema muto Caterina Boratto, dalla contessa Edmée de Chatel de Walmont al principe di Bhetune de l’Esdignol, Gran Maestro dell’Ordine dei Cavalieri di Malta – sono rappresentate per essere affidate a un’eternità popolata di ottimati, sempre rese con una cura attenta che sopravanza la verità meccanica della riproduzione fotografica, sulla linea tracciata dai coevi ritratti di Pietro Annigoni, nell’attenta considerazione dei precedenti di un grandissimo esponente del Novecento internazionale, Giorgio de Chirico.

Proprio il grande maestro della Metafisica sembra essere stato uno dei massimi ispiratori della produzione paesaggistica morselliana, in particolar modo quella degli anni Sessanta e Settanta. Le vedute delle Dolomiti, di Sirmione e di Portofino sono, infatti, sospese in atmosfere magiche, dense di mistero, come se, all’interno dello scenario silente, la materia pittorica si contraesse prima della fondamentale rivelazione di un arcano. La sua è infatti una natura fortemente ispirata alla mitologia e al mito della classicità; una natura intensamente caratterizzata dalla presenza di divinità sottese, non rivelate, che parlano agli uomini attraverso il linguaggio simbolico del paesaggio. Non sorprende dunque che Morselli abbia frequentato assiduamente luoghi e brani paesistici italiani – tra ruderi, isole, laghi, conventi arroccati sulla cima di inespugnabili blocchi di roccia – che da secoli avevano attratto, per magica carica e profonda eloquenza medianica, pittori provenienti da tutta Europa, alla ricerca del solare dio del Sud. Nei dipinti di Morselli, talvolta le architetture sembrano in procinto di sciogliersi e scomparire – quanto in Savinio – assorbite da una natura enigmatica dalla quale la presenza umana è per lo più esclusa. Spesso le testimonianze di quella che un tempo fu una sontuosa domus romana vengono liquefatte per donare la massima centralità a un altro tema molto amato da Morselli: il rapporto tra vita vegetativa del cosmo – una potenza schopenaueriana – e le vestigia d’antiche civiltà.

Nel recupero del canto leopardiano della ginestra, l’artista mette in relazione la vanitas umana, che precipita in un mondo di rovine odorose di piante selvatiche, con la dittatura dell’elemento naturale. Le essenze arboree crescono sordamente, abitate dal proprio obbligo alla vita, anche laddove, un tempo, fiorivano le grandi culture del Mediterraneo. Numerose si rivelano pertanto le opere del pittore modenese dominate da maestose piante, percorse da fremiti vitali. Sono creature che sembrano danzare, potenze ancestrali intrise di una ritualità magica, capaci di conformare i propri tratti arborei alle fattezze umane, di dialogare ad un tempo tra loro e con la natura circostante, trait-d’union tra la terra e l’evanescenza di un cielo colmo di nuvole, retaggio di un horror vacui decorativo e presago, nell’inquietudine vorticosa, di un fatto che necessariamente dovrà avvenire in quel contesto, ma che accadrà nel momento in cui lo spettatore avrà distolto lo sguardo dalla quinta narrativa. E tutto trascorre e vibra tra le fronde, a tal punto percorse da una vivida energia vitale, da ricordare prepotentemente gli alberi della vita di Giovanni Segantini.

Sebbene questi paesaggi sembrino il risultato di una pittura passionale, di getto, essi risultano piuttosto il frutto di un’intensa meditazione che accosta il “fare liscio”, tipico della sua pittura ufficiale, all’energia cinetica di un modo più libero di affrontare il canto della tela. Il tutto è caratterizzato da rapide pennellate e giochi di linee conflagranti, da una luce irreale e fiabesca, morbida e trasparente, che talvolta riesce a rievocare alcuni acquerelli di Turner. Non va neppure sottovalutata l’influenza esercitata su Morselli da uno dei massimi rappresentanti del Simbolismo europeo. Molte sono infatti le composizioni paesaggistiche con le quali l’artista affronta il mondo di Arnold Boecklin: un imprinting visivo lontano nel tempo, ma fortemente presente nella sua immaginazione. Ecco, allora, la necessità di realizzare – sempre e in ogni caso – paesaggi eloquenti, che si distolgano dalla tradizione visiva – e puramente sensoriale – della pittura di derivazione impressionista. A tal proposito particolarmente significativa è la composizione “Alba tragica”, realizzata nel corso degli anni Settanta: un albero solitario, cresciuto su una roccia, in mezzo ad acque agitate, si innalza verso il cielo nell’abbaglio di una simbolica luce. Una fitta tessitura che passa attraverso citazioni di De Chirico, Boecklin e Turner, raggiunta attraverso una straordinaria fame di assoluto. (maurizio bernardelli curuz)