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Max Beckmann, gli amputati e gli ossessivi 200 autoritratti


di Chiara Bertoldi

dottUno dei principali artisti tedeschi del XX secolo nonché uno dei massimi rappresentanti della Neue Sachlichkeit: questo è Max Beckmann (Lipsia, 1884- New York 1950).

Fu in lui precoce la grande passione per i maestri del tardo gotico-tedesco (Bruegel, Van der Weyden, Cranach e Grünewald) che lo spinsero a dar vita ad opere teatrali e simboliste. Ma al tempo stesso sua grande ambizione era quella di diventare un pittore di storia, ispirandosi a pittori come Géricault e Delacroix, per dipingere “grandi azioni drammatiche con contenuto umano”, come lui stesso amava ripetere.

Compito dell’artista, sempre secondo il pensiero di Beckmann, non era però quello di dare un’immagine oggettiva della realtà, bensì di interpretare la storia, di creare secondo “lo spirito del proprio tempo”. Fu così che diede vita al suo ben noto mondo di persone torturate, dolore, paura, orrore, amputazioni e clown, dapprima accostandosi all’espressionismo tedesco e successivamente, dal 1925, abbracciando la “Nuova Oggettività”.


Benché abbia attinto a piene mani dal repertorio letterario, mitologico e filosofico, fu soprattutto la guerra a crearne un personalissimo linguaggio, permettendogli di esorcizzare l’orrore del mondo attraverso l’arte e l’ironia. Emblematico risulta ricordare che Beckmann lavorò moltissimo soprattutto negli anni più difficili, quando fu costretto a fuggire dal nazismo, dapprima in Olanda e successivamente a New York: proprio in quel periodo seppe dar vita a ben 280 oli, l’equivalente di un terzo della sua produzione.

E’ inoltre altrettanto curioso ricordare che numerosissimi sono i suoi autoritratti, ben 200, quantità riscontrabile solamente nei ritratti che di sé realizzarono Rembrandt e Van Gogh.