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Molina, antropologo dell’immaginario


intervista di Jacqueline Ceresoli

José Molina, nato nel 1965 a Madrid, dagli anni Novanta vive a Milano.
Surrealista per vocazione ed antropologo dell’immaginario per passione, fin dagli esordi indaga l’uomo nelle sue molteplici possibilità rappresentative. Si distingue per il segno netto, tracciato a punta di matita o pastello, talmente perfetto che sembra inciso sulla tela, e per i colori freddi, onirici.
La sua indagine introspettiva mette a fuoco l’istinto, le pulsioni celate sotto la ragione. I volti, le figure mostruose imprigionate in corpi-corteccia visualizzano gli stadi di evoluzione della specie, da Darwin all’uomo-bestia immaginato dai surrealisti, passando per le lezioni di fisiognomica di Le Brun e la psicologia di Freud.
I suoi ritratti sono maschere ed espressioni dei sensi, impulsi e rimozioni ancestrali racchiuse segretamente in ognuno di noi. L’occhio per l’artista è parametro della conoscenza del mondo dentro e fuori; è la realtà, come la percepiamo e come icona, simbolo o ready made della visione.


Molina, quando ha deciso di fare l’artista?
Studio pittura da quando ero piccolo. Sono più di venticinque anni che lavoro. Per vent’anni sono stato attivo nel mondo della comunicazione: ho fatto il designer e l’illustratore, mi sono cimentato nella Tv, in multimedia, ho collaborato con i creatori di cartoni animati. E’ stato un lungo periodo utile per sperimentare, imparare e ascoltare. Ho studiato psicologia, ho viaggiato un po’. Poi ho scelto l’Italia, ed ho cambiato vita. E’ da alcuni anni che mi dedico solo alla pittura, e sono molto felice della mia scelta.

 

Ci parli della sua attività espositiva nel nostro Paese.
Ho tenuto la mia prima mostra nel marzo del 2004 alla Galleria Rubin. In seguito, ho cominciato a lavorare con Claudio Composti della Galleria Cà di Frà, esponendo in varie collettive, e infine, nei mesi scorsi, in una personale alla Fondazione Mudima. Adesso sto preparando la prossima mostra, che si terrà in settembre a Roma alla Galleria Romberg.

Che cosa ha proposto a Roma?
Ho esposto 10-12 opere della collezione Predatores, quadri incorniciati dalle creazioni scultoree che Pippo Basile ha realizzato per me, e accompagnati da miei testi.

 

Da che cosa è stata originata la sua scelta di fondere in modo surreale grafica, pittura, letteratura?
Ricordo che molto spesso, quando vivevo a Madrid, mi recavo al Prado. Ricordo le incisioni di Goya, la Serie Nera: i titoli delle opere erano veri e propri racconti. Mi sembrava che Goya riuscisse ad arrivare ancora più lontano appoggiandosi alla parola. Oggi, che disponiamo di molti strumenti per comunicare, voglio usare tutto quanto è possibile per offrire un messaggio completo.

La sua pittura ha come oggetti la visione dell’uomo, la fisiognomica, il paesaggio onirico, il mare, il bosco, gli sciamani, il sogno, il viaggio. Perché?
E’ difficile dare una spiegazione razionale. A me interessa molto l’uomo, quello che c’è nella sua interiorità, ciò che sente, come comunica, come si relaziona. Sempre lo confronto con la natura. La natura è per me dea, realtà, la giusta misura di tutto. Purtroppo, ce ne dimentichiamo sempre più spesso.

 

Mi descriva la sua tecnica. Pittura o arte digitale? Disegno, fotografia o pennello virtuale?
Io lavoro sempre utilizzando le tecniche tradizionali. Sono molte le tecniche che mi piacciono, perché ognuna ha una sua “personalità”: l’olio, la matita colorata, l’acrilico, l’acquerello…

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Illustrazione, grafica, pubblicità, comunicazione… Ma la pittura, che valore ha nella sua ricerca espressiva?
Sono due cose diverse. Il design e la pubblicità sono al servizio di qualcosa di esterno. Illustrano un’idea fuori di te; un servizio, un prodotto, un desiderio… La pittura è (o dovrebbe essere) pura libertà. Non ci sono frontiere. E’ puro cuore o pura razionalità.

 

Quali sono i maestri a cui si ispira?
Sono tanti. Ogni volta che vado a una mostra di un grande o vedo un libro d’arte trovo nuovi motivi di ispirazione.

Molina, non ha mai pensato di lavorare per il cinema?
Come dicevo, ho fatto qualche esperienza nel mondo della televisione e dei cartoon. Sono stato chiamato dalla Twenty Century Fox a disegnare una collezione di cinquanta personaggi per i programmi tv promossi dalla Fox Kid in tutta Europa. Ho lavorato anche per la Walt Disney.

 

Il suo è un linguaggio originale, ibrido, che racconta per immagini sogni e incubi. Sarà così anche in futuro?
Si, ma arriveranno altre cose. La prossima collezione sarà di oli. Opere di grande formato su legno. Soggetti complessi molto narrativi, ma senza testo. Sto lavorando pure ad una visione del dopo-morte, un passaggio di anime e natura; un ritorno a casa, all’origine. Sempre facendo riferimento alla mia cultura: il flamenco, la letteratura, Don Chisciotte, la mia città, la mia gente…

Quali sono i suoi interessi extra-artistici?
Come si può capire, amo profondamente la natura. Mi piace leggere, andare al cinema; e incontrare altre persone, chiacchierare con loro.

 

Che cosa pensa dell’arte contemporanea?
Sento tutto molto distaccato. Io credo invece che l’arte abbia anche una funzione sociale. Deve provocare, denunciare, anticipare… Credo che manchi un po’ di cuore, di coraggio. Credo che ci si dovrebbe esprimere più chiaramente. Siamo troppo attenti alle esigenze del mercato, dei critici, del pubblico.

Ci sono opere di artisti contemporanei che acquisterebbe per casa sua?
Certo che sì, molti miei colleghi sono bravissimi.

 

Che funzione ha la pittura oggi, nell’epoca web?
Io ho grande fiducia nelle nuove forme di comunicazione, ma a volte la tecnologia impedisce un contatto diretto e rende tutto più freddo. La gente si sente spesso sola. Non ascoltiamo quasi mai, non parliamo dei nostri veri problemi. Stiamo perdendo il contatto con la Terra, con il nostro corpo, con il nostro cuore. Secondo me, l’arte deve recuperare questo spazio, questa anima, questa sensibilità. Deve consentirci una comunicazione più limpida.