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Nell’oscurità della Tempesta



I capolavori della storia dell’arte sembrano destinati a far parlare di sé anche per l’alone di mistero che li circonda. Quale segreto si cela nell’opera più famosa di Giorgione, la Tempesta? Il quesito ha appassionato, e continua a farlo anche ai giorni nostri, numerosi studiosi che cercano con tenacia di risolvere l’arcano: cosa voleva rappresentare nel quadro il pittore? Qual è il vero significato del dipinto?

La ricerca di una soluzione parte da lontano. E’ alla fine dell’Ottocento che viene smentito ciò che da tempo si andava dicendo sul capolavoro giorgionesco. Si riteneva che in quell’opera il maestro avesse ritratto la moglie intenta ad allattare il figlio mentre un uomo, probabilmente lo stesso artista, vegliava al lato sinistro della scena, immersa in un’atmosfera bucolica. Niente di più semplice. Per questo motivo al quadro era stato attribuito il titolo La famiglia di Giorgione. E’ il 1895 quando Wickhoff – come ricorda Nepi Scirè in Giorgione. “Le maraviglie dell’arte”, edito da Marsilio – “contesta la decisione, per lui troppo affrettata e priva di fondamento: come poteva il pittore veneto ritrarre la consorte non essendo mai stato sposato?”.

Da questo momento è un susseguirsi continuo di ipotesi, tutte autorevoli; chi afferma che i personaggi del dipinto potrebbero rappresentare Adrasto che scopre Hypsyle mentre allatta Ofelte, episodio tratto dalla Tebaide di Stazio – ma il soggetto non corrisponde puntualmente al testo -; chi, invece, sostiene che le figure non sono altri che Adamo ed Eva, cacciati dal paradiso terrestre, effigiato sullo sfondo (Salvatore Settis, 1978). La puerpera sarebbe intenta ad allattare Caino, identificato in questo modo a causa del serpente che sembra uscire strisciando dalla terra ai piedi della donna e che successive radiografie, del 1984, rivelarono però essere una radice. Il lampo sarebbe il simbolo della punizione divina.

Giorgione, Tempesta
Giorgione, Tempesta

Dopo questa tesi, si sviluppano molti altri filoni interpretativi, tra cui quello di Kilpatrik del 1997, che vede il dipinto come “l’illustrazione di un mito, tratto dalle favole di Ovidio, una leggenda o addirittura un episodio biblico”, mentre c’è chi lo segnala come una raffigurazione allegorica, una vicenda storico-politica o un’espressione delle teorie fisico-filosofiche insegnate nelle scuole padovane e veneziane. Altri studiosi ancora lo spiegano alla luce di famose opere letterarie come l’Arcadia, le poesie del Petrarca, l’Hypnerotomachia Poliphili di Francesco Colonna, in cui si troverebbe una corrispondenza quasi puntuale di alcuni passi con la Tempesta, o le ovidiane Heroides, le lettere d’amore inviate dalle eroine abbandonate ai loro amanti.

In una di queste, la ninfa Enone scrive a Paride, che era stato suo sposo tra le colline frigie prima di perdere la testa per Elena. L’ambientazione è molto simile a quella dell’opera di Giorgione, in cui ci sono un fiume che scorre, allusione al dio Cebren, padre della ninfa, e una città che potrebbe essere la reggia di Priamo a Troia. L’uomo, dall’espressione malinconica, sembra prendere commiato dalla divinità, come nella tradizione. Infine c’è chi parla di soggetto nascosto, comprensibile solo a pochi iniziati; o al contrario, chi vede il dipinto per quello che è, per quello che si vede: un “paesetto (…) con la tempesta, con la cingana e soldato”. Non si esclude nemmeno sia compreso in quella categoria di “piccole figure in grandi paesaggi”, tipiche del corpus di Giorgione fino al 1507, anno in cui inizia la produzione dei grandi nudi, che prosegue fino alla morte.

In alcuni casi si giunge anche ad una lettura in chiave eretica del quadro; pare infatti che il maestro avesse aderito alle teorie di alcune sette che avrebbero sviluppato il pensiero dualista dei catari.

E ancora, in un susseguirsi di idee che pare veramente infinito, appaiono le teorie della dualità tra uomo e donna, tra città e ambiente naturale, tra forza (soldato) e carità (fin dall’antichità vista come una donna che allatta), che devono convivere con i rovesci della natura (il fulmine). Per la presenza dei quattro elementi – acqua, terra, fuoco e aria -, Gustav Friedrich Haurtlaub avanza un’interpretazione dai significati alchemici. Ma non è finita qui: psicologicamente il dipinto può sintetizzare il conflitto fra due etiche: quella pubblica e religiosa, simbolizzata dal cielo tempestoso che giudica, e quella privata e laica, rappresentata dalla coppia che sembra rivendicare la propria emancipazione in uno stretto rapporto con la natura.

Oltre che sul significato della composizione ci sono dubbi anche sulle sue singole parti, come, per esempio, sull’effigie del soldato che, visti il bastone e la foggia degli abiti – di derivazione carpaccesca -, potrebbe essere invece un pastore. Afferma Nepi Scirè che “la stessa figura maschile compare svestita in uno dei medaglioni del fregio di casa Marta-Pellizzari a Castelfranco, è riproposta a rovescio nell’ultima figura dell’Adorazione dei Magi della National Gallery di Londra, a mio avviso ancora un pastore”.

La donna, attorno cui ruota l’insieme, da una parte è Vergine che sfama il figlioletto, mentre dall’altro è prototipo della femmina moderna che posa senza pudore, quasi sfrontata nella sua nudità (infatti alza la gamba destra anziché la sinistra in una posa assai lasciva, e forse proprio da qui nasce la decisione di coprire successivamente, e almeno parzialmente, la figura con un arbusto). La sua è un’immagine che in questo contesto ha senso, secondo alcuni, solo se analizzata in chiave metaforica: altrimenti, perchè dipingere una signora nuda che allatta in mezzo ad un prato prima di un temporale?

Bisogna leggere tutto come se fosse un rebus. Il soldato fissa la nudità, superando in tal modo la morale religiosa. Così facendo anticipa quella che sarà la stagione dell’umanesimo laico. Sono inoltre forti le influenze nordiche “da Dürer a Cranach, ad Altdorfer, le cui stampe e i cui disegni circolano nelle botteghe veneziane. Giorgione decanta quell’asprezza germanica creando un’atmosfera più bucolica e pacata, nonostante l’evento atmosferico rappresentato”.

Anche il luogo è sconosciuto: Castelfranco o un borgo della terraferma veneta come Brescia, Bergamo, Verona, Vicenza o, più probabilmente, Padova, “vista la presenza del carro dei Carrara, stemma degli antichi signori della città, sulla porta-torre posta all’ingresso del centro abitato”. Come se non bastasse, risulta difficilissima anche la datazione (si ipotizza che il dipinto sia stato eseguito nel 1507-1508). Conclude la studiosa: “Al di là della capacità o possibilità di comprenderne oggi i significati, restano indiscutibili la stupenda rappresentazione del paesaggio fluviale illuminato dal lampo e ‘l’unione sfumata ne’ colori’, che piaceva al Vasari, giocata soprattutto su toni verdi e azzurri, caratteristiche che, nonostante certe innegabili incoerenze, rendono l’opera un’affascinante icona della cultura occidentale”. (l.t.)

Correggio, La Zingarella
Correggio, La Zingarella